L’idea di “società liquida”, un mondo in cui tramonta il senso di comunità, segnato dall’indebolimento delle relazioni umane e dominato da un’unica costante, l’incertezza, è l’immagine che Zygmunt Bauman ci ha trasmesso per descrivere il mondo in cui viviamo. Una visione che si è concretizzata nella mente di molti di noi durante quella sorta di gigantesco esperimento sociale che è stato il lockdown, mostrando nello stesso tempo la fragilità di un sistema incapace di rallentare senza infliggersi ferite difficili da rimarginare. Essere moderni, affermava Bauman, “venne a significare, così come significa oggi, essere incapaci di fermarsi e ancor meno di restare fermi”.
Mentre appare chiaro che l’emergenza è tutt’altro che finita, diventiamo sempre più consapevoli di essere alla vigilia di un possibile grande mutamento nel mondo del lavoro. È uno scenario su cui molti si stanno interrogando. Alcuni processi di cambiamento, imposti dalla rivoluzione digitale, erano già da tempo in movimento, ma gli ultimi mesi hanno prodotto un’accelerazione che nessuno avrebbe potuto immaginare, facendo esplodere il numero dei lavoratori in remoto. Sì, certo, sappiamo che smart e remote working sono situazioni diverse, ma sono molti a pensare che aver dimostrato sul campo la fattibilità del lavoro a distanza produrrà modificazioni permanenti nelle organizzazioni.
Si dice che i pesci non s’interrogano sull’acqua nella quale nuotano, ma a volte sono piccoli segnali a indicarci la direzione di un mutamento. Qualcosa è accaduto nel linguaggio: aver avuto bisogno di definire “in presenza” la normalità del lavoro, significa descrivere, probabilmente in modo inconsapevole, ma molto più chiaramente di quanto lo avessimo finora inteso, l’importanza dello spazio fisico nelle relazioni tra le persone.
Le sfide della formazione
Il futuro ci sta dunque correndo incontro, anticipando cambiamenti, nel tempo probabilmente inevitabili, sui quali è comunque importante riflettere e prepararsi. Per molto tempo lavorare ha significato recarsi in un luogo preciso, uno spazio fisico, che rappresentava un ambiente sociale di aggregazione capace nel tempo di generare “senso di appartenenza” e “idea di comunità.” Tutto questo avveniva in un tempo definito, scandito da rituali precisi che separavano il tempo del lavoro da quello delle relazioni sociali – private e di comunità – quello che con l’avvento della modernità verrà definito “tempo libero”. Ci si rende conto allora di essere di fronte a una svolta epocale, antropologica, che trasforma, dissolvendoli in larga parte, gli ancoraggi alla dimensione fisica del lavoro, quelli riferibili ai concetti di velocità, di spazio e di tempo. La dislocazione dei team in luoghi diversi, la destrutturazione dell’organizzazione temporale, il vorticoso aumento della velocità dei sistemi di comunicazione determinano un radicale mutamento delle relazioni tra le persone. La trasformazione di questi riferimenti, rimasti sostanzialmente immutati dall’inizio della rivoluzione industriale, genera spaesamento se non viene accompagnata da una diversa consapevolezza, fondata sulla formazione di nuove conoscenze e competenze.
Sul fronte degli smart worker sarà necessario sviluppare doti di self-management, auto-organizzazione, autonomia decisionale, capacità di definire un contesto (un framework di riferimento in uno scenario dai confini più labili), orientamento agli obiettivi e una forte responsabilizzazione sui risultati. Ed è abbastanza evidente che a fronte di queste caratteristiche, in particolar modo se lo smart worker è un dipendente, devono essere ridefiniti i classici concetti di delega e controllo.
Ma il cambiamento più importante e difficile riguarda la cultura della leadership, perché richiede quello che oggi siamo soliti definire, con quella leggerezza che spesso accompagna l’uso della terminologia inglese, “un cambio di mindset”, quando in realtà siamo di fronte a una trasformazione che sarebbe più corretto definire antropologica. Non è possibile infatti parlare seriamente di leadership senza evocare il concetto di “potere” e con esso gli elementi simbolici attraverso cui siamo soliti immaginarlo. Ne esiste uno più forte, semplice e diretto di quello rappresentato dallo “spazio/territorio”? Da sempre il potere è stato caratterizzato dal dominio del territorio, chi ha più potere domina e controlla spazi più grandi, in tutte le forme che possiamo immaginare (abusare del tempo a disposizione in una riunione, ad esempio, viene percepito come spazio occupato a discapito di altri). Gli etologi ci hanno insegnato che sotto questo aspetto siamo territoriali come molte specie animali.
Immaginando dunque un team di lavoro in una situazione “ibrida”, con larga parte delle persone occupate prevalentemente in smart working, credo sia importante chiedersi: i nostri manager saranno capaci di operare con la medesima efficacia, privati di quell’infinità di interazioni relazionali quotidiane, e di tutte le possibili forme di controllo immediato, diretto, spesso “a vista”, dei loro collaboratori? (la paura della perdita di controllo è uno degli aspetti rilevati dalle indagini). Quanto del loro ruolo è stato costruito su reali conoscenze e competenze, e quanto invece attraverso una dimensione più sotterranea, istintiva e inconsapevole della leadership, che poggiava su pilastri che si stanno piano piano dissolvendo? Sono domande forse scomode ma che richiedono un’attenta riflessione, perché immaginare questo scenario come una qualunque altra riorganizzazione è una semplificazione che può portare a grossi problemi.
La letteratura sulla leadership è molto vasta: uno sforzo che tuttavia non ha mai portato a una definizione universalmente condivisa, anche perché il limite maggiore risiede proprio nel tentativo di oggettivarla. Guardare la leadership “nella relazione” è quanto la visione sistemica della comunicazione ci ha insegnato; allora non è difficile cogliere in quel “one up” “one down”, che poi non è molto diverso dall’idea “io vinco, tu perdi”, l’aspetto culturalmente più difficile da superare. Abbiamo speso molte parole per far comprendere la differenza tra autoritarismo e autorevolezza; continuare in questa direzione significa chiedere oggi ai manager di essere capaci di ridefinire il loro stile di leadership: rinunciare ad alcuni dei classici privilegi legati al grado gerarchico, mettersi maggiormente in gioco nella relazione, accettare di scendere qualche gradino per dimostrarsi disponibili a “giocare in modo simmetrico”.
Il tuo carrello è vuoto.