“È chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente. Da tempo i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare. Nel tentativo di porvi rimedio, alcuni atenei hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana”.
Con queste parole inizia l’appello che pochi giorni fa seicento accademici hanno inviato al Ministro della Pubblica Istruzione. Questa lettera, ripresa da tutti i principali quotidiani, ha aperto un dibattito che ha visto anche repliche di segno diverso da parte di alcuni linguisti eredi del lavoro di Tullio de Mauro. Dibattito che comunque mette al centro lo stato di salute dell’Istruzione del nostro Paese e la sua capacità di formare persone e conoscenze in linea con le esigenze di una società attraversata da profondi mutamenti.
Nel 1934 Thomas Eliot scrive in una sua opera una frase illuminante: “dov’è la saggezza che abbiamo perduto nella conoscenza, dov’è la conoscenza che abbiamo perduto nell’informazione”.
Con molti anni di anticipo sulla nascita della televisione pubblica e moltissimi anni prima dell’avvento di Internet, Eliot s’interroga, con straordinaria lungimiranza, sul grande tema della conoscenza nell’era dell’informazione, proviamo a lasciarci guidare da questa intuizione.
Il livello di preparazione dei laureati italiani, a discapito di quanto viene sollevato dall’appello sopra riportato, è molto apprezzato, anche all’estero. Le conoscenze teoriche acquisite durante gli anni di studio consentono loro di raggiungere standard elevati, livelli di eccellenza spesso confermati da serie valutazioni presso i migliori laboratori di ricerca internazionali. Da questo punto di vista il fenomeno della “fuga dei cervelli” è da imputare, per esplicita ammissione dei nostri talenti in fuga, prevalentemente all’assenza di meritocrazia nel nostro sistema paese.
Si attribuisce invece al nostro sistema educativo di istruzione una minore capacità riguardo all’aspetto applicativo delle conoscenze teoriche acquisite durante il percorso formativo, a dispetto di alcuni colleghi stranieri che hanno frequentato un sistema formativo in cui c’è maggiore equilibrio tra queste due sfere.
Il disallineamento tra questi due aspetti della conoscenza è apparso sempre più evidente da quando nel mondo del lavoro si è imposto il concetto di competenza. Gli studi al riguardo risalgono agli inizi degli anni settanta, è lo psicologo David McClelland il primo a teorizzare questo concetto e ad affermare, in un suo famoso articolo del 1973, che le conoscenze scolastiche e i titoli di studio non sono sufficienti a garantire il successo professionale.
Nella definizione di McClelland le conoscenze e le abilità, che vengono collocate in una sfera più esterna e visibile, si legano a tratti più profondi dell’individuo: immagine di sé, valori e motivazioni. In Italia Gian Piero Quaglino (1990) definisce la competenza come la “qualità professionale di un individuo in termini di conoscenze, capacità e abilità, doti professionali e personali”. Siamo di fronte a un modello, più affine alla cultura anglosassone, definito: “Knowledge, Skills and Abilities” e spesso tradotto come: “sapere, saper fare e saper essere”.
Nell’ambito di questo modello il “sapere” viene individuato come un primo livello che permette di allenare la mente nella rappresentazione di una ipotetica situazione o contesto, e di immaginare come svolgere un compito, prendere una decisione o assumere un certo comportamento, cercando di valutare in astratto l’efficacia delle azioni messe in atto e le possibili conseguenze.
Il “sapere” in questa nuova era digitale ha modificato la propria essenza e oggi l’informazione è disponibile, in una forma immediatamente utilizzabile, quando ce n’è bisogno.
Tutto questo, naturalmente, è reso possibile dal fatto che ormai quasi tutta la cultura è stata trasferita su Internet. Nessuna generazione precedente ha mai avuto a disposizione l’intero scibile umano in questo modo, con tutti i vantaggi ed i problemi che ciò comporta.
Da un lato, l’accesso alla cultura è praticamente totale e gratuito, dall’altro, noi siamo la prima generazione che deve affrontare il problema di scegliere a quali informazioni permettere l’accesso alla nostra mente e come gestirle, organizzarle ed interpretarle. La situazione si è ribaltata rispetto al passato: non si tratta più di permettere all’uomo di accedere alla cultura ma di decidere come permettere alla cultura di accedere alla mente dell’uomo. Il rischio che stiamo correndo è di allontanarci dal valore intrinseco del “sapere”, che nobilita l’uomo e soddisfa uno dei suoi bisogni primordiali, la curiosità, per accedere ad un “sapere” superficiale e quantitativo, che ha perso il suo valore proprio perché immediatamente disponibile e gratuito.
Pensate ad esempio allo studio di una lingua straniera. Oggi si trovano audio corsi on line gratuiti, si può scrivere una lettera che immediatamente viene tradotta da software sempre più “intelligenti” e accurati, si può leggere una frase ad un’applicazione che la tradurrà in simultanea al nostro interlocutore in qualunque altra lingua. Il supporto della tecnologia, sempre più raffinata, è fondamentale per una società che si sta evolvendo, tuttavia i benefici nel risparmiare tempo che questa ci fornisce, rischiano di non alimentare la nostra motivazione all’apprendimento e impigrirci mentalmente. Saper parlare infatti la lingua straniera e riuscire ad interloquire in modo autonomo senza supporti di alcun genere, sviluppando indipendenza, è tutta un’altra storia.
Esprimiamo così il nostro desiderio di “saper fare”, cioè di esercitare e affinare le capacità di pensare e di immaginare, di apprendere, di utilizzare la conoscenza e di agire per mettere efficacemente in pratica le conoscenze acquisite sul piano teorico e riuscire ad adeguarle alle infinite variabili che l’impatto con la realtà ci presenta.
Per il passaggio dalla fase “sapere” alla fase “saper fare”, è necessario uscire dalla propria zona di comfort, cioè dalla situazione in cui ci si limita ad agire in modo abituale evitando di andare verso situazioni nuove che provocano disagio, con l’obiettivo di perseguire l’indipendenza personale. A tal proposito gli elementi fondamentali ed utili per agevolare questa transizione sono la consapevolezza e la responsabilità.
La consapevolezza perché ci permette di comprendere meglio i nostri obiettivi e le nostre aree di miglioramento fornendoci la motivazione necessaria a compiere nuove azioni e adottare nuovi comportamenti.
Lo stesso Albert Einstein diceva che “follia è fare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati diversi”.
La responsabilità è altrettanto importante per farci prendere carico delle implicazioni relative ai nostri pensieri ed alle nostre azioni, senza “dare la colpa agli altri”. Solo così innescheremo un meccanismo che ci permetterà di crescere sia come persone che come professionisti.
Tutti abbiamo dei sogni. Ma per realizzarli servono determinazione, dedizione, autodisciplina e sforzo in quantità formidabile, diceva Jesse Owens.
A seguito di questa riflessione Malcolm Gladwell ha coniato la regola delle diecimila ore: sulla base degli studi sulle persone che si sono distinte per la loro competenza e il loro talento, ciò che emerge è che per raggiungere l’eccellenza in un lavoro è necessario accumulare un minimo quantitativo di ore di pratica, diecimila ore appunto. Quasi 7 anni in cui ci si applica per 4 ore, 365 giorni all’anno.
Un’ulteriore fase che consente di raggiungere un livello più elevato di maturità riguarda il “saper essere”. Questa fase descrive l’insieme delle abilità maturate da un individuo che ha interiorizzato le capacità precedentemente descritte, riuscendo poi a trovare un livello di equilibrio e di armonia con i valori e le motivazioni che lo caratterizzano.
Anche noi siamo impegnati, ormai da molti anni, su queste tematiche e a questo proposito mi sembra estremamente utile proporvi un efficace esempio in linea con i concetti finora espressi. Il percorso da noi utilizzato per migliorare una competenza di grande importanza nel mondo delle organizzazioni: la Leadership.
Per poter esprimere al meglio la propria Leadership è necessario sviluppare un’equilibrata competenza emotivo comportamentale che ci permetterà di conoscere meglio le emozioni che proviamo e individuarle nella comunicazione del nostro interlocutore adottando le strategie relazionali più opportune.
La Leadership implica infatti l’interazione con altre persone, dunque di particolare rilevanza diviene l’efficacia relazionale che può essere raggiunta attraverso una buona auto consapevolezza e conoscenza di sé.
È solo nel “saper essere” che si può sviluppare un elevato livello di consapevolezza personale. Non bisogna negare le proprie emozioni, né vergognarsene o manifestarle in modo inappropriato giustificando che “si è fatti così”. Le emozioni forniscono informazioni utili sulla propria persona, sulle priorità e gli scopi, sulle aspettative e le relazioni che si vivono quotidianamente.
Lo stesso Carl Gustav Jung diceva: “Chi guarda fuori, sogna. Chi guarda dentro, si sveglia”.
Molte evidenze confermano come certi aspetti dell’intelligenza emotiva sono predittivi della job performance. È noto dalla letteratura come lavoratori con un’intelligenza emotiva elevata abbiano più probabilità di avere alti livelli di soddisfazione lavorativa per il fatto che sono più abili nel valutare e regolare le proprie emozioni rispetto alle caratteristiche dei colleghi tenendo sempre in considerazione la propria comunicazione verbale e non verbale.
Quando i nostri interlocutori riscontrano coerenza in ciò che facciamo, nei nostri comportamenti, rispetto ai valori di cui siamo portatori, abbiamo raggiunto il “saper essere” e siamo pronti ad avviarci verso l’ultimo step del nostro percorso che ci porterà ad essere riconosciuti quali Leader: il “saper ben-essere”.
In questa fase le persone riconoscono che il nostro comportamento non porta benefici solo a noi stessi ma diventa contagioso e porta benefici a tutte le persone che sono intorno a noi.
I nostri interlocutori saranno così ispirati e motivati, nascerà in loro il desiderio di agire e sperimentare ciò che viene mostrato.
Saper ben-essere vuol dire “saper essere nel giusto” perché ciò che rappresentiamo non è solo frutto di ciò che siamo ma ha lo scopo di portare questi benefici a tutta la comunità. Il Leader è colui che mette gli altri nelle condizioni di diventare Leader di sé stessi.
SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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