La diversità è uno dei valori fondamentali della nostra epoca. La diversità è cultura, ricchezza, prospettiva, scambio, crescita, necessità, e fa parte della storia di ogni essere umano. La diversità tuttavia appare ancora prevalentemente come un pericolo, una minaccia, una barriera spesso insormontabile che caratterizza il nostro sistema di relazioni. È di certo molto più “riposante” e sicuro avere a che fare con ciò che già conosciamo, con persone nelle quali ci riconosciamo in situazioni già collaudate. Ma quanto tempo può durare? E con quale risultato?
Diversità (dal latino divertere: volgere altrove, deviare) è un concetto che racchiude un doppio significato. Rappresenta il non noto, la cosa o la persona che prende un sentiero che non è il nostro, e ciò suscita inevitabilmente timore o addirittura costituisce una potenziale minaccia. Questo codice tanto enfatizzato ha però la medesima radice etimologica della parola divertirsi, concetto che, al contrario, ci dispone al mondo della curiosità, della scoperta e del piacere. Entrare in questo mondo e comprenderlo pienamente nelle sue possibili dinamiche è la gestione di un paradosso.
Nei discorsi sulla diversità, il tema della relazione con l’altro o con gli altri viene affrontato generalmente in modo idealistico, superficiale, consolatorio, nell’illusione che, lanciando un qualsiasi programma teso all’inclusione di una certa minoranza o semplicemente leggendo un libro sull’argomento, ogni problema possa risolversi. Quasi mai si è sfiorati dalla consapevolezza che ognuno di noi – a prescindere dalla categoria di appartenenza – è a sua volta “un altro”.
Comprendere questa dinamica è paragonabile a un viaggio in un Paese sconosciuto. Potremmo sentirci dei novelli Gulliver che, incontrando i lillipuziani, ridono dei loro usi e costumi, ma, come lo stesso Gulliver naufrago in un viaggio successivo, potremmo finire nella terra dei giganti e, in quanto a nostra volta nani, divenire oggetto di scherno. Nel nostro piccolo universo personale, ci sono usi e costumi che per noi sono ovvi e ovviamente giusti ma, se proviamo a rifletterci, sono arbitrari e soggettivi tanto quanto quelli dell’altro, anche se apparteniamo alla stessa cultura, parliamo la stessa lingua, consumiamo gli stessi prodotti. Non è affatto scontato.
Ogni volta che entriamo in relazione con l’altro ci troviamo quindi di fronte a una scelta: possiamo considerarlo un antagonista e nemico oppure farci catturare dalla curiosità di conoscerlo. Ma, anche in quest’ultimo caso, le cose non sono così semplici. Ben dice Pessoa nel suo Il libro dell’inquietudine: «… una delle mie prime preoccupazioni costanti è capire com’è che esistano anime che non sono la mia anima, coscienze estranee alla mia coscienza, che mi sembra l’unica possibile …».
La nostra identità si definisce in contrapposizione alle caratteristiche che rileviamo nelle persone che ci circondano. Se vogliamo percorrere il sentiero che ci porta alla scoperta del valore insito nella diversità, qualunque essa sia, diventa essenziale accettare che la partita si giochi innanzitutto a un livello profondo e personale. Ascoltare, vedere e riconoscere le opportunità che questo turbamento ci offre nel contesto in cui viviamo, sia esso azienda o società.
Se vogliamo uscire dalla retorica sulla diversity e costruire non tanto e non solo “programmi” spesso sterili, ma un nuovo mindset autenticamente aperto e disponibile, dobbiamo investire sulle nostre competenze di leadership: l’ascolto, l’empatia, il desiderio profondo di capire l’altro. Mettersi in gioco, accettare la gestione costruttiva del conflitto e di quella quota di intolleranza che è implicitamente presente ogni volta che entriamo in contatto con l’altro. Affrontare la diversità significa essere disposti a farsi contaminare, ripensare sé stessi come portatori di pluralità, mettersi nei panni dello “straniero”, ricordandoci che misurarsi con la diversità implica inevitabilmente farsi conoscere nella propria unicità.
È frequente vedere organizzazioni che, ancor oggi, non favoriscono cooperazione e integrazione. Più facilmente premiano la competizione incentivando strategie, ruoli e obiettivi individuali anziché di squadra. L’inclusione è la direzione strategica verso cui puntare per realizzare un progetto serio in tema di diversity. Si dovrà partire da un’attenta introspezione per comprendere la propria realtà, la propria visione del mondo, le proprie motivazioni e la propria struttura valoriale. All’interno dell’organizzazione questo lavoro ci aiuta a scoprire, prevenire e, potendo, risolvere le barriere esistenti che generano i conflitti che coinvolgono uomini e donne, ma anche generazioni o etnie differenti, che in molti casi possono sfociare in vere e proprie battaglie ideologiche.
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