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L’estate fa bene all’Amore. È cosa risaputa.
Le coppie consolidate rinnovano il loro sentimento grazie al tempo libero, al relax e ai piccoli vizi che si possono concedere nel periodo di ferie.
Chi è single ed è alla ricerca della propria anima gemella può invece sfoderare appieno le proprie abilità nell’arte del corteggiamento.
Ma quali sono gli indicatori non verbali – seri e oggettivi – che ci rivelano il reale interesse dell’altro, e quali invece devono metterci in allerta?
“Mordersi le labbra”, “accarezzarsi i capelli”, “mostrare i polsi” o una “muscolatura tonica”, o “accavallare le gambe in direzione dell’interlocutore quando ci si siede”… i manuali sulla comunicazione non verbale e internet sono spesso ricolmi di bufale generalizzate ma non verificate sul piano scientifico, e che tendono a ridurre a semplici inferenze “se fa questo gesto… allora le/gli piaci” il complesso mondo delle emozioni e dei comportamenti.
Quando si parla di emozioni e sentimenti spesso è impossibile desumere da un singolo gesto, da una postura, o da un singolo avvicinamento dell’interlocutore (prossemica), una sicura buona predisposizione a noi e al nostro corteggiamento, ovvero un “lasciapassare” che ci indichi di proseguire in quello che stiamo facendo poiché gradito all’altro.
Proviamo a esaminare cosa c’è di vero e cosa invece dobbiamo considerare meno attendibile nel mondo “body language” associato alle fasi del corteggiamento.
Oggi, in questa seconda parte dell’articolo, parleremo della prossemica e dell’uso dello sguardo. Eccovi svelate le principali verità e falsi miti correlati al “linguaggio non verbale dell’Amore”.
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Edward T. Hall coniò il termine prossemica, disciplina che studia lo spazio e le distanze intercorse tra gli interlocutori durante una comunicazione. Hall ha osservato che la distanza tra le persone (in termini psicologici: affinità, complicità, grado di confidenza, feeling interpersonale) è correlata con la distanza fisica. Hall ha definito e misurato quattro “zone” interpersonali:
– La distanza sociale (da 1 a 3,5 metri): è la distanza usata durante la comunicazione tra conoscenti, o nel rapporto formale insegnante-allievo (confidenza e informalità molto limitate, interazioni comunicative comunque frequenti).
– La distanza pubblica (oltre i 3,5 metri): è la distanza che intercorre usualmente nelle interazioni tra completi sconosciuti.
– La distanza personale (da 45 a 120 cm): è la distanza che caratterizza la comunicazione tra amici.
– La distanza intima (da 0 a 45 cm): è la distanza che intercorre tra soggetti in forte intimità e confidenza (si pensi agli innamorati).
Edward Hall sottolinea però che queste distanze sono ideali, influenzate dalla cultura e non universali: la vicinanza ottimale nella quale una persona si sente a proprio agio con le altre persone è spesso soggettiva, varia in base al diverso grado di confidenza, ed è fortemente influenzata da fattori legati al temperamento e alla cultura d’appartenenza della persona. Ad esempio: le persone di etnia e cultura araba preferiscono stare molto vicini tra loro quando conversano; i nord-americani, gli europei e gli asiatici, durante un’interazione comunicativa, generalmente mantengono invece una distanza maggiore; in India, norma sociale impone che persone di caste diverse debbano mantenere distanze specifiche inviolabili.
Secondo Hall anche il genere incide sulla prossemica: i maschi si trovano più a loro agio a lato di una persona, mentre le femmine di fronte. Anche a livello di contatto fisico intra-genere esistono sostanziali differenze: le femmine tra loro sono generalmente più predisposte alla vicinanza e al contatto fisico, mentre i maschi sono spesso refrattari alle manifestazioni d’affetto che prevedano contatti fisici non richiesti.
Secondo l’autore, la violazione di queste “zone” da parte di uno degli interlocutori, comporta una serie di reazioni comportamentali ed emozionali nell’altro: la persona che si vede “invasa”, può provare un immediato disagio (la reazione è ancestrale: è dovuta all’attivazione del Sistema Nervoso Simpatico, che innesca meccanismi di “attacco-fuga” spesso inconsapevoli); la persona può cercare di celare il fastidio che può provare facendo come se nulla fosse (ma a livello muscolare si può osservare un irrigidimento posturale e nel volto), oppure può reagire: “attaccare” la persona e richiedere con fermezza il rispetto delle distanze, oppure “fuggire”, spostandosi indietro di qualche passo, con discrezione (per non offendere l’altro).
Ma se non abbiamo nessuna informazione a priori su una persona, non conosciamo la sua etnia né che tipo di distanza gradisce nel caso dovessimo interagire con lui, come ci dobbiamo comportare? Se notiamo un’espressione facciale di disprezzo, disgusto o rabbia, chi ci dice che questa mimica non sia dovuta non tanto a cosa diciamo alla persona (o a come gliela diciamo), bensì al contesto in cui avviene la conversazione stessa (dove, magari inconsapevolmente, ci avviciniamo o allontaniamo dall’interlocutore)?
La nostra analisi deve considerare il macro e il micro contesto in cui la conversazione avviene (cultura di riferimento ed educazione familiare specifica; contesto attuale), e se non abbiamo abbastanza informazioni, dobbiamo focalizzare la nostra attenzione sui segnali non verbali universali, che sono sicuramente più validi e affidabili.
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Il contatto oculare è un segnale d’attenzione cognitiva, che crea un collegamento visivo e comunicativo tra due persone, e che coinvolge il piano relazionale ed emozionale tra i due.
Guardare negli occhi qualcuno, oltre a comunicargli la nostra attenzione, può elicitare in lui emozioni variegate, a volte molto intense.
Guardare negli occhi intensamente può essere usato per sedurre durante il corteggiamento, ma può anche innescare reazioni d’imbarazzo, competitività o ostilità. Il distogliere lo sguardo abbassa quasi immediatamente i livelli di stress innescati durante un’interazione comunicativa, per cui, in media, raramente tra gli interlocutori il contatto oculare dura più di tre secondi.
Il contatto oculare è influenzato dalle regole di esibizione introiettate nella propria cultura d’appartenenza. Michael Watson, in una ricerca correlata alla prossemica in soggetti di nazionalità diverse, ha riscontrato che i soggetti appartenenti a culture arabe conversano a lungo e in posizione frontale verso l’interlocutore, più dei nordamericani e degli europei. Nell’interazione, si fronteggiano in maniera più diretta. Si guardano maggiormente negli occhi, si toccano di più e parlano a un livello sonoro più alto. Durante un’interazione comunicativa, in Giappone gli ascoltatori sono tenuti a concentrarsi sul collo dell’oratore in modo da evitarne il contatto oculare, mentre negli Stati Uniti avviene l’opposto, poiché è segno di buona educazione e rispetto guardare negli occhi l’altra persona mentre parla. Negli ascensori affollati, è prassi non guardare per nulla l’altro, onde evitare imbarazzanti conversazioni di circostanza.
Nella vita di coppia, quando le persone si amano da tempo o sono in disaccordo, spendono molto meno tempo nel guardare negli occhi l’altro.
Lo sguardo diretto, accompagnato da un volto sorridente e postura con corpo in avanti, è un segno affidabile di buon feeling tra persone che si stanno conoscendo.
Nei primati, e poi nell’uomo, lo sguardo persistente si è evoluto come segno di dominanza e o di minaccia, mentre evitare lo sguardo dell’altro è spesso correlato ad atteggiamenti di sottomissione al dominante.
Come usare quindi il proprio sguardo per migliorare la nostra comunicazione e diventare comunicatori efficaci?
Abbiamo capito quanto sia importante tracciare un’attenta baseline del nostro interlocutore prima di scegliere cosa dire o come interagire con l’altro.
Questa fase ci permette di evitare sconvenienti misunderstanding sul piano della comunicazione, favorire il processo di empatia e migliorare la nostra abilità di instaurare relazioni positive con gli altri.
Lo sguardo, come ogni segnale non verbale da noi trasmesso, va modulato con gentilezza e rispetto, a prescindere dal nostro ruolo o dal tipo di comunicazione in cui siamo inseriti.
FINE SECONDO CAPITOLO
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