ARTICOLO DI PATRIZIA SANGALLI – Pubblicato su HBR rubrica “Formatori&Formazione” numero di Maggio 2022
Negli ultimi trent’anni abbiamo assistito all’affermarsi della formazione in numerosi contesti organizzativi e, al tempo stesso, anche a un sensibile ampliamento del suo orizzonte di disciplina e di insieme di attività destinate allo sviluppo di conoscenze, competenze e capacità. Negli anni più recenti, tuttavia, la scena della formazione si sta misurando con significativi nuovi orientamenti e nuovi bisogni. Le caratteristiche che l’ormai noto acronimo V.U.C.A. ha portato alla ribalta: Volatilità, Complessità, Incertezza e Ambiguità fanno parte del quotidiano e, per via anche delle vicende pandemiche che ci hanno coinvolto, hanno influenzato in modo importante individui e organizzazioni.
Certamente abbiamo assistito a un importante dilagare del digitale nella formazione, fenomeno accolto con entusiasmo da molti, che ha aperto possibili nuovi orizzonti. Tuttavia, non è questa la direzione della mia riflessione. Desidero invece porre l’attenzione non tanto su come possono modificarsi ed evolvere gli strumenti, piuttosto su come si stia affermando un forte e chiaro indirizzo a far evolvere il principio e il senso dell’atto formativo e del processo di apprendimento. La cosiddetta società liquida, o la società del “fare”, si caratterizza per la frenetica attenzione su tutto ciò che consente di apparire, su ciò che velocemente porta a un risultato, e ancora più velocemente ne richiama un altro, e un altro ancora. La tensione ai risultati non può che rimandare a ulteriore tensione per i risultati in un crescendo che è ben noto a tutti e che ha portato a confondere i mezzi con gli scopi, perdendo di vista un aspetto essenziale che ci appartiene: il senso dell’ulteriorità.
L’esperienza pandemica, ma non solo, ha contributo, a mettere meglio a fuoco questa spinta: l’isolamento forzato, il conseguente senso di solitudine, le paure per il futuro, il senso di impotenza hanno risvegliato una consapevolezza diversa: la nostra vita non può essere ricondotta solo alla giostra della performance, ha bisogno di altro, ha bisogno di avere e comprendere il senso. Un altro fenomeno esemplificativo di questo emergere di nuovi bisogni è rappresentato dalla cosiddetta “Great Resignation”: dimissioni dal lavoro per come è concepito e proposto. I casi non riguardano un’azienda o un segmento di mercato, e nemmeno un paese specifico, accade a livello globale, e le motivazioni possono essere sintetizzate nel bisogno di dare un significato diverso al lavoro, in quanto aspetto importante della propria crescita, ma non certo l’unico.
In questo scenario, la formazione e l’apprendimento assumono una rilevanza strategica, tornando ad incarnare il significato più antico e più autentico che riguarda non solo il sapere, o il saper fare, ma anche e soprattutto il saper essere. Il cambio di paradigma è già in atto, movendo dalla trasmissione di teorie/conoscenze alla costruzione di conoscenze, prospettiva che poggia su un assunto importante: la “centratura sui soggetti”. I partecipanti diventano così i protagonisti attivi dell’intervento
formativo. Il contesto di apprendimento diventa spazio e tempo condivisi, che i partecipanti abitano con le loro ansie le loro affettività e le loro fatiche.
Il contesto formativo apre uno spazio in cui le persone si coinvolgono significativamente anche in relazione al proprio progetto interno che, integrandosi nel gruppo, conduce all’attivazione di un cambiamento reale. In questo spazio fiorisce l’affettività che nel processo di apprendimento assume sfumature e mutamenti essenziali per la costruzione di senso. Il potere dello stare in relazione nel contesto di apprendimento rappresenta la chiave di volta del nuovo modo di fare formazione. È nella relazione e grazie alla relazione che la facilitazione e il team coaching alimentano la consapevolezza, la fiducia e la motivazione all’attivazione del cambiamento. È nella relazione, infine, che la differenza diviene condizione fondamentale per la costruzione di nuovi significati.
Un ’altro elemento che per decenni è stato bandito dai contesti di apprendimento, sono le emozioni. L’imperativo era imparare a controllarle, per tenerle fuori, in quanto disfunzionali a prescindere. Ebbene, stiamo finalmente uscendo da una sorta di oscurantismo culturale rispetto alle emozioni la cui preziosa funzione è sempre più apertamente riconosciuta. Le nuove frontiere dell’apprendimento e della formazione non possono non considerare come l’allenamento ad accettare, riconoscere e regolare le emozioni rappresenti una leva potente per un processo di apprendimento autentico che faccia leva su curiosità, meraviglia e passione, da sempre il motore dell’evoluzione e del progresso.
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