Provate a pensare all’ultimo progetto che avete portato avanti. Ricordate i diversi parametri che avete seguito? Quali regole, imposte da voi o da altri, avete dovuto rispettare? Standard elevati, attenzione ai dettagli, autocontrollo, sono qualità di grande valore nel contesto lavorativo e spesso portano a risultati straordinari. A volte però, se analizziamo queste qualità con maggiore attenzione, potremmo accorgerci della presenza di un’arma a doppio taglio: il perfezionismo.
Questa tendenza, in apparenza virtuosa, ha il potere di inibire la creatività e di portare a una valutazione eccessivamente severa delle proprie prestazioni. Se da un lato ci spinge a dare il massimo, dall’altro crea un ciclo di auto-critica che può diventare dannoso. Quando ci identifichiamo troppo con il nostro lavoro il rischio è di legare la nostra autostima ai risultati che otteniamo. Possiamo sintetizzare questo meccanismo nella frase “Ho fatto bene, quindi sono bravo”. In sintesi: il nostro operato diventa la nostra identità.
La trappola di questo approccio è l’uso inconscio del meccanismo “tutto o niente“. Se commettiamo un errore è facile passare da una situazione di “successo” a una di “fallimento” senza alcuna sfumatura intermedia. Questo pensiero dicotomico può diventare paralizzante, impedendoci di vedere il quadro complessivo e di riconoscere i progressi fatti. Imparare dagli insuccessi è fondamentale, diverso equiparare il proprio valore a singole prestazioni che possono rivelarsi, occasionalmente, anche non del tutto efficaci.
In un mondo sempre più competitivo, il rischio di posizionare l’asticella delle nostre aspettative troppo in alto, può rendere difficile accettare una nostra prestazione lavorativa “sufficientemente buona”. Le persone tendono a confrontarsi costantemente con i successi altrui, amplificando così la sensazione di inadeguatezza ogni volta che non raggiungono standard che, osservati con maggiore equilibrio, si rivelerebbero pressoché irrealistici. Questo porta a una spirale di insoddisfazione, in cui si teme di non essere mai all’altezza.
Ma come possiamo accogliere l’errore nel nostro processo lavorativo? In primo luogo, è fondamentale comprendere che l’errore è una parte naturale e inevitabile del processo di apprendimento. Abituarsi ad attribuire a questi eventi un’opportunità per crescere e migliorare è essenziale per un approccio sano al lavoro. Fermarsi quando le cose sono “sufficientemente buone” non è sinonimo di mediocrità, quanto piuttosto una competenza da sviluppare perché delinea una consapevolezza dei propri limiti. Troppo spesso ci perdiamo nei dettagli, cercando la perfezione in ogni aspetto del nostro lavoro. Imparare a riconoscere quando un progetto ha raggiunto un livello soddisfacente può liberarci dalla trappola del perfezionismo.
Anche i migliori atleti possono avere giornate negative e performance non soddisfacenti, ma questo non significa che non siano bravi nel loro settore. L’importante è non mettere troppa energia nel tentativo di annullare l’imponderabile. Essere disposti a correre qualche rischio e accettare che non tutto andrà sempre come previsto è un segno di maturità professionale.
Una cultura capace di valorizzare l’errore è cruciale e può spostare la nostra prospettiva verso un approccio più equilibrato e sano al lavoro. Dobbiamo ricordarci che il successo non è solo una questione di risultati perfetti, ma di crescita e capacità di affrontare le sfide con il sorriso.
Testo di Diego Ingrassia
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