La memoria di un tempo in cui tutti gli uomini parlavano la stessa lingua è presente nei miti fondativi di molte civiltà. Il più noto per noi è il racconto biblico della Torre di Babele, ma narrazioni simili, nelle quali per volontà divina le lingue verranno poi confuse tra loro, le ritroviamo tra gli Indiani Nord Americani, nelle culture precolombiane del Sud America e in India. Comune a questi miti è anche l’idea che tutto avvenne come punizione divina nei confronti della hybris, la superbia dell’uomo che aveva osato sfidare il cielo, e con esso il suo mistero.
Elogio di Babele è il titolo di una conferenza che James Hillman tenne all’Università di Siena nel 1999, nella quale il grande psicanalista interpreta il mito attribuendo un significato decisamente positivo alla moltiplicazione delle lingue, in opposizione all’idea di un codice univoco e assoluto che rischia di annullare la ricchezza contenuta nelle infinite sfumature dei tanti linguaggi, manifesti impliciti di differenti visioni del mondo.
Questo esempio, riguardante le lingue parlate, ci può essere molto utile per comprendere meglio il significato e la funzione delle diverse emozioni e quindi, implicitamente, il loro linguaggio. Ci aiuterà anche, come vedremo, a stabilire un ponte importante tra la manifestazione emotiva e l’espressione linguistica che la descrive.
Delle emozioni universali abbiamo parlato spesso su queste pagine, è merito di Paul Ekman aver dimostrato come sette principali emozioni (paura, rabbia, felicità, tristezza, disprezzo, disgusto, sorpresa) si manifestino attraverso le stesse espressioni facciali per tutti i popoli del mondo, al di là delle differenze culturali. Chiaramente la complessità del mondo emotivo è tale da non poter essere ristretta a queste sette emozioni.
Le emozioni sono spesso mescolate tra loro, e alcune di esse possono palesarsi insieme nel volto. Queste espressioni vengono definite blend (mescolanza). Si prenda come esempio la malinconia o la nostalgia, emozioni non sempre facili da definire con precisione, influenzate sia da elementi soggettivi che culturali. Dove si ripensa, in un mix tra la dolcezza del ricordo e un velo di tristezza, a tempi ormai andati. La nostra mente razionale sa che non toneranno più, mentre il cuore ci dice che è stato bello averli vissuti. Oppure l’invidia, che nasce dall’incontro tra la rabbia e la tristezza: la rabbia che muove contro un “nemico” simbolico, colui che possiede ciò che tu desideri, ma non hai.
È importante sottolineare come anche queste emozioni conservino una componente adattiva: la rabbia ha la funzione di aiutarci a identificare con determinazione l’obiettivo, il traguardo che vogliamo raggiungere. Tutto questo però convive con la tristezza che deriva dalla consapevolezza di non averlo ancora. Le emozioni miste, forse proprio per la loro natura complessa e mutevole, hanno suscitato spesso interesse anche al di fuori del mondo della ricerca. Roland Barthes, il più grande semiologo del novecento, scriveva a proposito della gelosia: “Come geloso, io soffro quattro volte: perché sono geloso, perché mi rimprovero di esserlo, perché temo che la mia gelosia finisca col ferire l’altro, perché mi lascio soggiogare da una banalità: soffro di essere escluso, di essere aggressivo, di essere pazzo e di essere come tutti gli altri”. La natura “ibrida” di questa emozione appare chiara anche attraverso questa descrizione: sono infatti presenti la paura e la rabbia per la perdita, l’invidia per qualcuno che potrebbe avere “qualcosa” che non è più nostro, e poi la tristezza per la perdita. In un mix di emozioni molto influenzato anche dalla soggettività individuale. Ultima annotazione: nella gelosia gli “attori” presenti sulla scena devono essere almeno tre. Ma chi crede di poterla eliminare andando a vivere in due su un’isola deserta, potrebbe far male i suoi conti. La parola “qualcosa”, infatti, non è stata usata a caso, perché si può essere gelosi di un oggetto e ovviamente anche di un ricordo.
Chiudiamo questa carrellata di esempi con l’Indignazione, anch’essa un’emozione complessa. Per quanto riguarda le espressioni facciali osserviamo un incrocio di rabbia e disgusto, nella dimensione culturale si aggiunge anche la componente del disprezzo. Ci troviamo quindi di fronte a un quadro decisamente articolato e complesso, perché da un lato la “semiologia del corpo” ci mostra un’interpretazione di comportamenti che vengono percepiti contro sé stessi, mentre la componente culturale implica anche un’offesa al senso morale e quindi si riferisce a un valore più largamente condiviso all’interno del gruppo sociale di appartenenza.
Negli esempi fatti finora abbiamo visto che la caratteristica principale delle emozioni miste, definite anche “emozioni secondarie”, è quella di attivare connessioni tra emozioni primarie e processi di comprensione cognitiva, che si sviluppano con l’esperienza e attraverso l’interazione sociale. Manifestazioni che per la loro peculiare natura ci permettono di diventare sempre più consapevoli di quanto sia vasto e articolato il nostro mondo emotivo. Esiste tuttavia un terreno d’indagine che ci consente di esplorare, in modo originale e facilmente accessibile, questo complesso universo che racchiude al suo interno aspetti fisiologici, psicologici e culturali: l’analisi delle parole che nelle diverse lingue del mondo definiscono le emozioni.
Ludwig Wittgenstein, il filosofo famoso per le sue teorie sul linguaggio, affermava: “i limiti del mondo sono i limiti del mio linguaggio”, facendoci capire in questo modo quanto l’interazione tra mondo (realtà) e linguaggio sia molto più ampia e profonda di quanto siamo soliti pensare. Su questa traccia di pensiero si è indirizzato recentemente il lavoro di alcuni studiosi, un esempio è quello di Tim Lomas, docente di psicologia positiva applicata presso l’università di East London, che ha avviato una sistematica ricerca sulle parole utilizzate, in qualsiasi lingua, per comunicare sentimenti positivi. Studio nato dalla convinzione che molti di questi termini siano capaci di descrivere sfumature del mondo emotivo assolutamente originali, perché fortemente rappresentative dei valori e della visione del mondo di una certa cultura e di fatto intraducibili in altre lingue.
A partire da queste ricerche Lomas ha dato vita al “Positive Lexicography Project”, un glossario universale (on line), in costante aggiornamento, che si propone di raccogliere i termini usati in tutte le lingue del mondo per esprimere emozioni, sentimenti, ed esperienze positive.
Alcuni esempi funzionano meglio di qualunque spiegazione:
Sisu, è una parola finlandese che esprime la forza psicologica che permette a una persona di affrontare sfide straordinarie, anche senza la promessa di ricompense immediate.
Mamihlapinatapei, descrive, nella lingua Yagán della Terra del Fuoco, lo sguardo tra due persone che si comunicano il tacito e reciproco desiderio.
Dadirri, è l’atto profondo e spirituale di un ascolto riflessivo e rispettoso, nella lingua aborigena australiana.
Desbundar, in portoghese: lasciar cadere le proprie inibizioni e divertirsi.
Aware, in giapponese significa: la sensazione dolceamara generata da un attimo di trascendentale bellezza che non sappiamo se mai più tornerà.
Fargin, nella lingua yiddish: orgoglio e sincera felicità per il successo di qualcun altro.
Mepak, in serbo: il piacere delle piccole cose.
Heimat, in tedesco significa: l’affetto radicato per un luogo nei confronti del quale si prova un forte senso di appartenenza.
Il valore più importante di questa iniziativa è proprio quello di restituire parole alle emozioni, dimostrandoci nello stesso tempo come siano presenti, in qualsiasi lingua del mondo, parole capaci di descrivere, a volte in modo mirabile, la complessità delle emozioni e dei sentimenti dell’animo umano.
A partire dal lavoro di J. Nemiah e P. Sifneos, che per primi, agli inizi degli anni settanta, coniarono il termine alessitimia (letteralmente: mancanza di parole per le emozioni), diversi studiosi hanno sottolineato l’importanza di avere parole per “concettualizzare” l’emozione, come passaggio fondamentale per generare consapevolezza emotiva. Sviluppare questa competenza vuol dire essere consapevoli delle nostre reazioni comportamentali, comprenderne il significato, per poterle gestire in modo costruttivo all’interno delle relazioni in cui siamo coinvolti. Eppure, malgrado la crescente attenzione in questi ultimi anni riguardo al tema dell’intelligenza emotiva, diverse esperienze sul campo ci dimostrano che ancora moltissime persone non sono capaci di identificare le emozioni che provano. Alla base di questo c’è sicuramente una limitata consapevolezza, ma larga parte di questa situazione è determinata dalla mancanza del primo elemento essenziale per poter identificare, descrivere e quindi cominciare a comprendere quello che proviamo: le parole.
Avere un vocabolario ricco per descrivere le diverse sfumature che le emozioni possono assumere nel nostro vissuto è importante. Questa operazione di “alfabetizzazione emotiva” dovrebbe coinvolgere i bambini, attraverso appositi programmi, fin dai primi anni di scuola. Essere educati alle emozioni, poter sviluppare intelligenza emotiva, aiuta a sviluppare una comunicazione empatica capace di disinnescare le emozioni distruttive e dirigerle verso emozioni e comportamenti più funzionali. Ovviamente, l’educazione alle emozioni non è da riservarsi solo ai bambini, dovrebbe riguardare tutti, sia nella vita privata che in quella professionale.
Un’operazione meritoria in questa direzione è la recente pubblicazione dell’Atlante delle Emozioni, un progetto che nasce dall’amicizia e collaborazione tra Paul Ekman e il Dalai Lama, un’opera singolare nel suo genere e semplice nella sua struttura, messa a disposizione di tutti attraverso la sua diffusione in rete (http://atlasofemotions.org). L’Atlante è una “bussola” che ci guida nel mondo delle emozioni e che ci consente di comprendere come vengono innescate, cosa avviene nel nostro corpo a livello fisiologico quando siamo in balìa di un’emozione, qual è la risposta comportamentale che ne può derivare e come esercitare maggiore controllo sui fattori scatenanti.
Ritornando, in conclusione, alle parole di Wittgenstein, che ci ha insegnato che là dove non c’è parola non c’è mondo, è importante ricordare sempre l’enorme giacimento emotivo, simbolico e culturale che abbiamo a disposizione attraverso le parole. Le infinite sfumature semantiche presenti nelle diverse lingue, testimoniano uno degli aspetti più affascinanti e profondi sviluppati dalle diverse culture, che da sempre hanno compreso l’importanza di dare voce al mondo delle emozioni. In una stagione in cui l’intelligenza delle macchine crea qualche timore per la sua capacità di sostituire l’operato umano, migliorandolo, è lecito chiedersi, non senza una punta di orgoglio, riusciranno mai le macchine a sviluppare tanta elegante raffinatezza?
Articolo di Diego Ingrassia e Massimo Berlingozzi
Fonte: Psicologia Contemporanea
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