Intervista a Diego Ingrassia.
Inside Out, il recente film d’animazione della Pixar-Disney, ha sbancato i botteghini anche delle sale cinematografiche italiane. Sembra proprio che il brillante Peter Docter, già regista e sceneggiatore di altri capolavori come Up, Toy Story, Monsters & Co., abbia fatto centro ancora una volta.
In questo nuovo film, Docter ha deciso di rappresentare le emozioni e il modo in cui influenzano il comportamento. “Abbiamo voluto fare un film ambientato non dentro il cervello, che è un luogo fisico” – ha rivelato Pete – “ma dentro l’animo”. Si è avvalso, per questo, della collaborazione dello psicologo Dacher Keltner (fondatore del Greater Good Science Center dell’Università di Berkeley in California) e dello psicologo Paul Ekman, autorità mondiale nello studio e riconoscimento delle emozioni e delle espressioni facciali (consulente per la nota serie-tv “Lie to me”).
Ho avuto occasione di incontrare (all’evento “I quattro pilastri della leadership” organizzato da Performance Strategies) Diego Ingrassia, massimo esperto, in Italia, delle teorie e dei modelli scientifici sulla fisiologia delle emozioni.
Diego è il CEO di I&G Management e rappresenta in esclusiva Paul Ekman in Italia. Membro della American Academy of Forensic Sciences, fornisce, insieme al suo team di Analisti Emotivi-Comportamentali, consulenza in ambito sia aziendale sia forense, per aiutare a riconoscere, attraverso l’attenta lettura della Comunicazione Verbale e Non Verbale, la credibilità dell’interlocutore.
Chiacchierando, davanti ad una tazza di caffè, Diego mi ha raccontato la sua esperienza in qualità di consulente scientifico nella creazione di contenuti formativi correlati al film Inside out, diffusi in via esclusiva nel nostro Paese. Non ho resistito dal fargli qualche domanda.
Le emozioni sono dei processi (influenzati dal nostro passato evolutivo e personale) attivati da trigger, stimoli scatenanti esterni e interni alla persona.
I comportamenti causati dalle emozioni sono funzionali alla nostra natura di “animali sociali” e sono rimasti immutati nel corso dell’evoluzione come veicoli per comunicare agli altri messaggi specifici, in tempi rapidi. Essi comunicano il nostro atteggiamento, quello che proviamo in un dato momento, fungono da “termometro” della qualità dei rapporti interpersonali e sono segnali che ci permettono di preservare l’incolumità (fisica e psicologica) nostra e degli altri.
Le emozioni possono essere classificate in due macro-categorie: primarie e secondarie (o complesse).
Quelle primarie sono innate, sono universali, si manifestano – nel viso, nelle reazioni posturali, nei parametri della voce – nello stesso modo a prescindere dalla cultura di appartenenza. Esistono, per la verità, delle regole e prescrizioni comportamentali (display rules), che apprendiamo nel nostro ambiente familiare e sociale, che tendono a “mediare” il modo in cui manifestiamo queste emozioni.
Le emozioni primarie, secondo Paul Ekman, sono sette: felicità, paura, rabbia, disgusto, tristezza, disprezzo, sorpresa. Sono definite “famiglie”, poiché ognuna di esse racchiude diverse sfumature e tipologie legate a una stessa macro-categoria emozionale.
Le emozioni secondarie, invece, variano da cultura a cultura e sono maggiormente influenzate da aspetti cognitivi, valoriali e propri della persona. Queste emozioni variano a seconda del particolare periodo di sviluppo della persona e sono influenzate dalla memoria, dal pensiero e dalle contingenze ambientali.
Tra le emozioni secondarie troviamo la vergogna, il senso di colpa, la gelosia e la nostalgia.
Le emozioni servono alla nostra sopravvivenza: ci permettono di adattarci all’ambiente e di interagire con gli altri. Sono presenti in tutto ciò che facciamo, colorano le nostre vite in maniera sensibile e ci motivano ad agire o reagire all’ambiente. Andiamo a teatro, vediamo un film, leggiamo un libro sempre alla ricerca di emozioni, perché sono il mezzo che ci permette di sentirci vivi e presenti, nel qui ed ora.
Talvolta, però, non vorremmo provare certe emozioni che consideriamo negative o scorrette socialmente. La rabbia, ad esempio, può renderci violenti, la paura ci porta ad evitare alcune situazioni, la vergogna o il senso di colpa rischiano di compromettere la nostra visione del mondo, se non interveniamo per tempo. Eppure esistono e si manifestano, senza che noi possiamo fare nulla per impedirlo.
Possiamo modulare l’intensità delle emozioni, acquisendo debite competenze e conoscendo quali trigger principali e soggettivi possono provocarle. Possiamo anche intervenire in modo costruttivo per migliorare i nostri rapporti interpersonali, se sappiamo riconoscere e gestire le emozioni del nostro interlocutore e interpretare i reali bisogni che esprime dietro il comportamento o l’atteggiamento che manifesta.
Molti quando parlano di emozioni tendono a classificarle in positive o negative. Io preferisco chiamarle costruttive o distruttive, in quanto ritengo che tutte le emozioni siano positive solo per il fatto che ci hanno permesso di evolverci e sopravvivere.
Per rispondere alla tua domanda, mi viene in mente un episodio. Quando i cinesi hanno invaso il Tibet, anche il Dalai Lama ha dichiarato di essere stato estremamente arrabbiato. Come tutti gli uomini anche lui, che per tutta la sua vita ha praticato la non violenza e, attraverso la meditazione, è in grado di gestire con molta consapevolezza le sue emozioni, non ha potuto evitare di provare rabbia. Durante la sua intervista, mi ha colpito il suo punto di vista e la prospettiva che ha fornito rispetto a questa emozione. Non era indirizzata contro il popolo cinese, bensì verso i fatti e le azioni che si stavano compiendo.
Quando indirizziamo un’emozione, come la rabbia, verso una persona, tendiamo a mettere una barriera e a compromettere il rapporto: in questo caso, l’emozione diventa nemica e distruttiva. Indirizzare la rabbia verso il fatto e l’azione che la persona sta compiendo ci permette di salvaguardare il rapporto, in quanto il focus rimane sul comportamento e non sulla relazione o su giudizi di natura valoriale. In questo caso, l’emozione diventa alleata e costruttiva.
Sono felice che Pete Docter abbia deciso di sviluppare un film d’animazione sulle emozioni, utilizzando i contenuti che eroghiamo nei nostri corsi di certificazione internazionale. Penso che un’educazione più strutturata alle emozioni debba essere insegnata ai nostri figli fin dall’infanzia, sia in famiglia sia all’interno di percorsi formativi e scolastici specifici.
Abbiamo appena finito un progetto pilota nelle scuole italiane, per educare il corpo insegnanti e i genitori a riconoscere e gestire con maggior competenza le emozioni dei bambini; abbiamo anche introdotto, nel loro percorso formativo, laboratori per aiutarli ad essere maggiormente consapevoli delle emozioni che stanno vivendo e delle reazioni che manifestano, in modo da favorire i loro rapporti interpersonali all’insegna della positività e del rispetto di sé e degli altri.
Stiamo lavorando affinché questo progetto pilota possa rappresentare l’inizio di un percorso che porterà il Ministro dell’Istruzione ad introdurre un nuovo modulo all’interno dei suoi piani didattici.
Inside Out è il risultato di vent’anni di collaborazione tra Pixar e Paul Ekman, iniziata con Toy Story nel 1995. Questa collaborazione tra Disney e Paul Ekman si è concretizzata anche qui in Italia e siamo stati orgogliosi di aver potuto fornire il nostro apporto scientifico ad alcuni contenuti creati e inerenti il Profilo Emotivo Comportamentale delle cinque emozioni rappresentate nel film.
Gli studi di Paul Ekman hanno permesso di costruire un data-base di espressioni facciali digitalizzate grazie al quale lo spettatore si sente subito coinvolto e vive con i personaggi le loro emozioni.
Inside Out ne è il risultato più esaustivo e coinvolgente. Per ogni personaggio del film è stato condotto un profondo studio delle componenti verbali e non verbali specifiche da utilizzare per singola emozione: ad esempio, Rabbia, quando si attiva, abbassa e unisce le sopracciglia, usa un tono di voce aspro ad alto volume, serra il pugno e gonfia il petto. Durante le esplosioni violente, la reazione neurofisiologica principale fa sì che il flusso sanguigno salga verso la testa, che prende fuoco, e si diriga nelle braccia, che si attivano. Questo meccanismo, modellato dall’evoluzione, ci ha permesso di prepararci al combattimento per sopravvivere.
Tutti gli indicatori verbali e non verbali che rappresentano le emozioni nel film sono estratti da 50 anni di ricerche di Paul Ekman, che ha individuato le caratteristiche di manifestazione universale delle sette emozioni primarie.
Nel film ci sono, tuttavia, alcuni errori tecnici dovuti alla scelta di non rappresentare altre due emozioni universali: Disprezzo e Sorpresa. Se osserviamo la comunicazione verbale e non verbale di Disgusto, ci rendiamo conto che è caratterizzata da un mix tra disgusto e disprezzo. La componente mimica di disprezzo è un ghigno di indignazione, un sorriso unilaterale (che coinvolge la compressione e il sollevamento di un angolo della bocca). Il labbro superiore sollevato, invece, è tipico del disgusto.
Disgusto, in Inside Out, manifesta entrambi e, mentre in alcune situazioni ha dei comportamenti di repulsione, di nausea ad alcuni stimoli, in altri momenti assume un atteggiamento di superiorità morale, è sarcastica e pungente, elementi comportamentali del disprezzo.
Quando Riley (la protagonista del film) dorme la prima sera nella casa nuova, la mamma le chiede di continuare ad essere felice e di farlo anche per sgravare il papà dal senso di colpa di averle portate così lontano dai loro affetti. Un atteggiamento di gioia non reale avrebbe garantito sollievo al padre e non avrebbe creato tensione in una famiglia alle prese con il trasloco.
Tuttavia questo modo di gestire l’emozione della figlia da parte della madre provoca confusione nell’equilibrio emotivo di Riley e aumenta il suo livello di stress. La ragazzina non si sente capita e comincia a non controllare più le sue emozioni. Tristezza è bloccata da Gioia nelle azioni, ma la tristezza in Riley è presente, forte e in sordina, per cui il personaggio comincia a comportarsi in modo strano, creando disagio e confusione nella “cabina di controllo” della mente di Riley.
Questa è una magnifica rappresentazione del disagio emotivo, dove spesso le emozioni forti e distruttive vengono provate e prendono il sopravvento. Ogni tentativo coercitivo di bloccarle è vano e crea conseguenze peggiori, anziché migliorare il nostro equilibrio, mettendo seriamente a repentaglio la nostra identità, il nostro atteggiamento, il nostro comportamento usuale, le nostre motivazioni e bisogni.
Quando, poi, gioia e tristezza tornano nel quartier generale decidono di cooperare e così facendo Riley prova la nostalgia, un mix appunto di gioia e tristezza. Questa nuova emozione permette alla bambina di provare il bisogno di tornare a casa. Giunta davanti ai genitori, decide di comunicare loro la tristezza che prova in conseguenza del trasloco a San Francisco e i genitori empatizzano con la figlia, comunicandole che la stessa emozione la provano anche loro.
Sta avvenendo la risoluzione del trauma emotivo attraverso l’empatia dei genitori. In caso di tristezza, abbiamo la necessità di sentire la vicinanza delle persone amate: solo così ci sentiamo capite e sollevate. A questo punto, possiamo essere aiutati a traghettare la tristezza che stiamo provando verso altre emozioni. La situazione si risolve perché finalmente ognuno di loro è stato sincero circa le emozioni che prova realmente. I genitori hanno mostrato di avere un elevato livello di intelligenza emotiva.
È importante conoscere le metodologie per comprendere e gestire le emozioni del nostro interlocutore, perché non sempre il buon senso è sufficiente. A chi si volesse avvicinare a questa materia suggerisco di partecipare a corsi specifici, supervisionati nel metodo e nella tecnica da esperti professionisti, in quanto il web è pieno di approcci naive che sono molto lontani dall’approccio scientifico di cui stiamo parlando.
Gioia e Tristezza sono senza dubbio le due vere protagoniste del film, anche se mi ha lasciato perplesso, da un punto di vista tecnico, la scelta di insignire Gioia del titolo di leader “tacito” delle altre emozioni: sembra essere un “capo che coordina i lavori” e distribuisce mansioni alle altre, al di sopra delle altre emozioni in termini di importanza e responsabilità sul benessere di Riley.
È normale che ognuno di noi ricerchi situazioni che gli permettano di provare emozioni piacevoli: siamo tutti “alla ricerca della felicità”. Un atteggiamento positivo e ottimista apre, infatti, alle relazioni interpersonali e crea contatto, ci rende pro-attivi, disponibili, ci aiuta ad affrontare al meglio le situazioni avverse, preserva la nostra autostima e la nostra percezione di auto-efficacia nella risoluzione di un problema.
Direi di sì. Diversi studi psicologici hanno dimostrato che sorridendo, assumendo una postura eretta, usando un linguaggio verbale positivo, attiviamo in noi pattern neurofisiologici specifici che contribuiscono a generare le emozioni, in questo caso la felicità.
Qualcosa di analogo accadde anche allo stesso Paul Ekman quando, durante la costruzione del Facial Action Coding System (2002), assunse in modo deliberato centinaia di espressioni facciali. Man mano che eseguiva alcune mimiche, si accorse che, attivando i muscoli che caratterizzavano un’espressione facciale di un’emozione specifica, dopo un breve lasso di tempo sentiva di provare realmente (anche se in maniera attenuata) le emozioni che semplicemente simulava con il volto. Sorridere, insomma, genera in noi felicità.
Attenzione, però: assumere rigidamente e in modo stereotipato un atteggiamento positivo, fuori contesto e fuori luogo, è molto pericoloso. Si rischia di ignorare, in modo deliberato, le informazioni dell’ambiente e si sviluppa stress nel riscontrare che le nostre aspettative si scontrano con la “dura realtà” oggettiva. In più, si rischia di non vivere con serenità le altre emozioni, di evitarle. Provare emozioni è umano. E ogni emozione ha senso che esista in noi per essere sperimentata.
Ciò non vuol dire che dobbiamo provare tutte e sette le emozioni primarie in egual misura durante una giornata, ma saperle riconoscere nel contesto in cui ci troviamo e gestirle con un alto livello di consapevolezza è un requisito indispensabile. Ci rende vivi, consapevoli e liberi, in sintonia con noi e gli altri.
Intervista a Diego Ingrassia, 23 novembre 2015
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