“CI SONO PIÙ STELLE NELL’UNIVERSO che granelli di sabbia sulla terra”.
Quando l’astronomo Carl Sagan pronunciò questa frase era il 1980, nessuno allora poteva immaginare di creare qualcosa capace di sfidare quei numeri.
Con i Big Data ci siamo riusciti e questi dati continuano a crescere, anche perché ormai non siamo più solo noi a produrli.
È infatti in costante aumento la quantità di informazioni generate e gestite dalle macchine (machine to machine – M2M), così nell’immediato futuro non saremo più i protagonisti di questo processo.
È un passaggio su cui vale la pena riflettere? Proviamo a gettare un sasso nello stagno, ripescando una mirabile affermazione (profetica?) di Thomas Eliot: «Dov’è la saggezza che abbiamo perduto nella conoscenza, dov’è la conoscenza che abbiamo perduto nell’informazione? ».
Ma andiamo con ordine.
Luciano Floridi, professore di filosofia ed etica dell’informazione a Oxford, ha affrontato ripetutamente questo tema, e nel suo libro La quarta rivoluzione spiega come l’era digitale ci abbia fatto perdere anche l’ultimo primato, quello sulle informazioni.
Copernico ha scalzato l’uomo dal centro dell’universo, Darwin ci ha costretti ad abbandonare l’idea di essere qualcosa di diverso dal resto dell’evoluzione, Freud attraverso l’inconscio ci ha spiegato che l’Io non è più padrone in casa sua.
Floridi attribuisce la paternità di quest’ultima mutazione ad Alan Turing, il matematico inglese pioniere dell’informatica e ideatore del test omonimo per riuscire a distinguere un computer da un essere umano.
Quali sono le conseguenze di questa ennesima ferita inferta al nostro ego?
E c’entra qualcosa tutto questo con il dover ripensare al vero valore della comunicazione nel mezzo delle trasformazioni dell’era digitale?
A volte piccoli esempi aiutano più di grandi spiegazioni: l’esempio in questione riguarda un curioso acronimo, apparentemente neutro, capace al massimo di procurare piccoli fastidi.
Il suo nome è captcha.
Si tratta di quelle immagini, o lettere distorte, che ci vengono proposte per dimostrare di “non essere un robot” quando ci registriamo su un sito internet.
La versione in lingua inglese che riporta la frase “Confirm Humanity” spiega ancora meglio il problema.
L’utilità di tali sistemi è nota, eppure questa situazione ha qualcosa di paradossale.
Probabilmente in quel momento non ci pensiamo, ma siamo di fronte a una macchina che ci chiede di dimostrarle di essere umani.
Sostanzialmente un test di Turing al contrario, tanto che, se sveliamo l’acronimo, scopriamo che captcha sta per: Completely Automated Public Turing-test-to-tell Computers and Human Apart. Un bambino di pochi anni è capace di riconoscere i semafori o le farfalle proposte da quelle immagini, tuttavia è questa la capacità che ci viene richiesta per dimostrare di non essere un computer. Sappiamo bene che una macchina, opportunamente istruita, sarebbe in grado di risolvere il problema, ma è proprio in questa diffusa e naturale capacità di contestualizzare elementi di senso che risiede una delle importanti qualità dell’intelligenza umana.
Come spiega bene il filosofo americano John Searle, noto per i suoi studi sulla “filosofia della mente”,”la macchina dispone solo di una competenza “sintattica” nel combinare simboli; non possiede invece una competenza “semantica”, indispensabile per attribuire un significato ai simboli su cui sta operando.”
È quello che Luciano Floridi definisce, con una felice espressione, “capitale semantico”, attribuendo a questa peculiarità degli esseri umani un ruolo centrale per individuare le competenze del futuro.
Di fronte a macchine che sono capaci di manipolare e gestire le informazioni meglio di noi, è fondamentale quindi capire dove guardare per valorizzare il lavoro del futuro.
La consapevolezza che la comunicazione non si risolva nel semplice passaggio di informazioni è il lascito importante degli studi sulla pragmatica della comunicazione, che ci hanno aiutato a comprendere quella “grammatica delle relazioni” essenziale per poter gestire in modo strategico i rapporti tra le persone all’interno delle organizzazioni.
In fondo, non avrebbe senso parlare di soft skill in assenza di questa consapevolezza.
Ripensare la comunicazione significa allora ricordarci sempre che nell’enorme giacimento emotivo, simbolico e culturale che abbiamo a disposizione attraverso le parole, e nelle infinite sfumature semantiche presenti nei tanti linguaggi di cui oggi disponiamo, risiede il valore più profondo dell’esperienza umana.
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