Rubrica “PSICOLOGIA DELLE EMOZIONI” di Diego Ingrassia – “GESTIONE DELLE EMOZIONI: IL DISGUSTO”
per PSICOLOGIA CONTEMPORANEA – Creatività – n. 274, Luglio-Agosto 2019 – GIUNTI EDITORE
QUANDO UNA SITUAZIONE CI PROVOCA RIBREZZO, PER SALVAGUARDARE LE RELAZIONI POSSIAMO PROVARE A GUARDARE LE COSE DA UN PUNTO DI VISTA DIVERSO
Nell’ultimo articolo di questa rubrica abbiamo cominciato a introdurre il tema della gestione delle emozioni negli ambienti di lavoro, affermando come alcuni dei processi di inevitabile trasformazione che nel tempo subiscono le organizzazioni spesso falliscano per la scarsa attenzione posta all’ascolto e alla comprensione della componente soggettiva delle emozioni.
A partire da questo numero ci occuperemo di volta in volta di come affrontare e gestire specifiche emozioni: in questo primo articolo ci occuperemo del disgusto.
Dal punto di vista biologico, i meccanismi emozionali servono al corpo per prepararsi ad affrontare eventuali sfide o situazioni di pericolo, come una specie di campanello di allarme. Corpo e mente sono inscindibilmente connessi da un legame molto stretto, e l’uno influenza l’altra.
Il disgusto appartiene, insieme a rabbia, paura e felicità, al novero di quelle emozioni che richiedono un’intensa attivazione fisiologica per generare l’azione corrispondente e che per questa ragione sviluppano un maggiore calore corporeo.
Quando proviamo disgusto solleviamo il labbro superiore, a volte accompagnato dall’arricciamento del naso, che si rimpicciolisce per evitare di far entrare nella cavità nasale odori sgradevoli. Spesso ci voltiamo per allontanarci dalla fonte del disgusto, prendendone una distanza fisica e psicologica.
Quando qualcosa ci disgusta proviamo un vero e proprio senso di repulsione, il che si vede chiaramente osservando la grande concentrazione di energia a livello della gola e degli organi addominali. Il disgusto che, per quanto riguarda l’espressione facciale, viene sovente confuso con la rabbia, ha la funzione adattiva di tenerci lontani da oggetti, alimenti, ma anche persone, che valutiamo come potenzialmente dannosi.
È un’emozione che ci fa provare un senso di avversione verso qualcosa che riteniamo offensivo per la nostra sensibilità.
A livello relazionale sono le persone, con le loro azioni, il loro aspetto, a volte anche le loro idee, a disgustarci, e in tal caso faremo di tutto per evitarle o per respingerle, fino al punto da eliminarle totalmente dalla nostra vita.
I trigger, che abbiamo imparato a conoscere come gli elementi capaci di fare scattare l’emozione, sono invece di natura soggettiva oppure legati alla cultura d’appartenenza.
A volte ci disgustano i cibi di altri Paesi, ma anche loro abitudini, che, proprio come fenomeni sensoriali, sentiamo troppo estranei e diversi dalle nostre esperienze di vita per poterli accettare.
La dimensione “relazionale” del disgusto si rivela funzionale a tenerci lontani da situazioni o ambienti che percepiamo come estranei e in qualche modo minacciosi.
Gli effetti pratici di questa emozione hanno lo scopo di promuovere la separazione tra le persone e di definire i confini da non superare.
Nell’ambito della dimensione sociale, immaginiamoci l’interno di un’azienda, dove la situazione contingente potrebbe rendere non percorribile l’idea di separazione nel senso letterale del termine, in quanto assumerebbe il significato di una rinuncia o di una vera e propria fuga dal problema.
In questi casi possono essere di aiuto strategie come la rivalutazione cognitiva e la soppressione.
Sono entrambe forme di regolazione delle emozioni, che possono rivelarsi assai efficaci, anche di fronte a vissuti emotivi molto forti.
La rivalutazione cognitiva si avvale di strategie di pensiero orientate a ristrutturare la percezione di un evento, mediante l’attribuzione di un nuovo significato, che genera un’emozione diversa.
In questi casi il contributo di un coach può aiutare la persona a guardare la situazione da una prospettiva diversa, con l’obiettivo di rivalutare le azioni e i comportamenti che avevano fatto scattare l’emozione, attribuendo a tali manifestazioni un significato diverso capace di attenuare, e nel tempo di risolvere, il problema.
Già Shakespeare affermava: «Non c’è nulla di buono o di cattivo al mondo, che il pensarlo in un certo modo non lo renda tale».
La strategia della soppressione, invece, non implica il ripensamento di ciò che stiamo vivendo, ma ha l’obiettivo di soffocare sul nascere l’emozione.
Si sopprime l’emozione cercando di nasconderne i segni espressivi.
A questa seconda possibilità è più facile che si ricorra quando manca il tempo a disposizione per organizzare una risposta comportamentale più complessa.
Possiamo valutare tale strategia da un duplice punto di vista: nascondere il personale disgusto a un nostro ipotetico interlocutore durante una riunione di lavoro può aiutare a dissimulare l’emozione evitando spiacevoli conseguenze a livello relazionale, ma costringe la persona che la attua a uno sforzo, peraltro non risolutivo nei confronti del problema.
Un’interessante ricerca può aiutare a comprendere meglio la situazione. James Gross, con la sua équipe di ricercatori dell’Università di Stanford, ha condotto il primo studio di imaging cerebrale per confrontare direttamente le due diverse tecniche di regolazione delle emozioni.
La Risonanza Magnetica funzionale (fMRI) è stata utilizzata per osservare l’attività neurale delle persone che utilizzavano ciascuno dei due metodi per far fronte ad alcune tra le emozioni più viscerali, fra cui proprio il disgusto. I partecipanti alla ricerca erano esposti alla vista di immagini disgustose e si chiedeva loro di utilizzare le due tecniche di regolazione.
Le immagini fMRI hanno rivelato che, indipendentemente dalla strategia utilizzata, entrambe le aree cerebrali associate alla reazione emotiva – l’amigdala e l’insula – si attivavano.
Il grado di attività neurale in ciascuna delle due regioni e il suo timing erano peraltro sostanzialmente diversi, a seconda che si impiegasse la rivalutazione cognitiva o la soppressione espressiva. Solo la rivalutazione è stata efficace nel ridurre le risposte fisiologiche dei soggetti, mentre la strategia di soppressione ha portato i livelli di stress a crescere.
Bisogna, però, sempre considerare il contesto e la situazione per valutare quale strategia sia meglio utilizzare.
La rivalutazione cognitiva, che, come abbiamo visto, produce effetti migliori riguardo alla fisiologia dello stress, potrebbe non essere indicata in situazioni che richiedono interventi rapidi e risolutivi, per ragioni di tempo.
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