Rubrica “PSICOLOGIA DELLE EMOZIONI” di Diego Ingrassia – “MANAGEMENT E GESTIONE DELLE EMOZIONI”
per PSICOLOGIA CONTEMPORANEA – Dipendenze – n. 273, Maggio-Giugno 2019 – GIUNTI EDITORE
OGGI LE ORGANIZZAZIONI TENGONO IN MAGGIORE CONSIDERAZIONE LA MOTIVAZIONE E L’INTELLIGENZA EMOTIVA DI CHI LAVORA
Chi segue il mondo della formazione ricorderà probabilmente che, a partire dall’inizio degli anni Novanta, si è cominciato a sentire il bisogno di strumenti che potessero interpretare la prestazione lavorativa al di là della sua componente tecnico specialistica.
A un certo punto si è compreso che per ottenere prestazioni di alto livello, in un mondo che diventava giorno dopo giorno sempre più complesso, il “fattore umano” era diventato un elemento imprescindibile.
La “cultura del compito”, affinata attraverso lunghi anni di esperienza, perfettamente capace di descrivere, tramite ampi e dettagliati mansionari, cosa una persona “deve fare”, non era più capace di garantire l’efficienza desiderata. Improvvisamente è sembrato chiaro che i migliori performer riuscivano a ottenere i loro risultati mediante alti livelli di discrezionalità: tutto questo, i vecchi mansionari non erano più in grado di descriverlo. I modelli basati sui concetti di “competenza” e di “soft skills”, derivati dagli studi di David McClelland e portati in Italia da Gian Piero Quaglino, hanno consentito alle organizzazioni di attuare questo cambiamento: passare dalla cultura del “cosa si deve fare” alla cultura del “cosa si può fare”.
È evidente che in tale scenario la componente motivazionale e gli elementi legati all’intelligenza emotiva hanno assunto un ruolo via via più importante. Questa consapevolezza, insieme alle sempre più numerose ricerche a sostegno di tali orientamenti, ha creato nel tempo una lenta ma significativa inversione di tendenza. Per comprendere la trasformazione di cui parliamo è interessante ricordare, per esempio, per quanto tempo le donne sono state penalizzate anche nell’ambito professionale. Ciò avveniva in fase di assunzione, ma anche in tutte le altre circostanze che potevano vederle candidate per una promozione a ruoli manageriali. Non venivano prese in considerazione, in quanto portatrici di un livello di emotività giudicato poco consono al “duro mondo aziendale”.
Ma le emozioni, come abbiamo visto, accadono, e il tentativo di bloccarle, di escluderle, produce risultati peggiori.
Oggi si è finalmente compresa l’importanza della competenza emotiva nel lavoro, pertanto sviluppare questa capacità nelle persone rappresenta una rilevanza strategica all’interno delle organizzazioni, per gestire meglio una componente vitale troppo spesso lasciata al buon senso e al livello di sensibilità dei singoli. È quindi necessario riuscire a valorizzare queste competenze in un’ottica organizzativa, dedicando particolare attenzione ai processi di selezione per l’inserimento di nuovi assunti, all’identificazione dei talenti e alla costruzione di precisi percorsi per la gestione dei collaboratori.
Il metodo dell’analisi emotivo-comportamentale, a cui abbiamo già dedicato un precedente articolo di questa rubrica, trova una sua efficace applicazione in alcuni di tali processi. Per quanto riguarda l’attività di selezione, tutti sappiamo quanto sia importante riuscire a trovare le persone giuste, e sappiamo anche quanto sia complesso, in un tempo limitato – al massimo un paio d’ore –, riuscire a capire chi abbiamo di fronte. Tale analisi, che un tempo partiva da una prima valutazione del curriculum vitae, oggi è resa più complessa dalle innumerevoli informazioni reperibili in Rete all’interno dei vari social network. Questo dato impone una seria riflessione su un’indagine molto più esposta che in passato al rischio di una valutazione fuorviante per la presenza di dati che potrebbero discostarsi notevolmente dalla realtà.
Il fattore legato alla desiderabilità sociale, sempre in agguato in qualunque forma di autopresentazione, trova infatti uno spazio assai ampio e completamente nuovo all’interno di questi strumenti di comunicazione. Allo stesso modo, nei processi di talent management e di valutazione del potenziale questo metodo di osservazione si rivela di grande aiuto, riducendo il rischio di scelte dettate da dati parziali o da distorsioni alimentate dall’intuizione del momento. Contrastare il rischio in oggetto è sempre possibile, a partire dall’impegno per sviluppare adeguate competenze in chi ha la responsabilità di gestire attività di valutazione. In particolare, egli deve migliorare la capacità di osservazione e la sensibilità degli operatori del settore, per poter estendere l’indagine alla sfera emotiva e motivazionale. E valorizzare, quindi, nella gestione del colloquio quegli aspetti legati all’intelligenza emotiva che svolgono un ruolo determinante nell’equilibrio del processo valutativo.
Oggi è finalmente possibile avvalersi di una metodologia scientifica a sostegno di questo impegnativo compito: chi è addestrato a cogliere tali segnali dispone infatti di uno strumento molto efficace, può ricavare preziose informazioni correlate alle emozioni che il suo interlocutore non è consapevole di manifestare e verificarle all’istante per mezzo di domande mirate. Qualunque processo di valutazione interpersonale è un obiettivo difficile e delicato, che può rischiare di esporci a due atteggiamenti sbagliati, tra loro diametralmente opposti: l’eccesso di sicurezza da un lato, che induce a intraprendere pericolose scorciatoie, quasi sempre legate ai nostri bias cognitivi; oppure un atteggiamento caratterizzato da un eccesso di cautela, permanentemente tentato dalla convinzione che “la verità stia sempre nel mezzo”.
Possedere un metodo ci aiuta a guidare la nostra capacità intuitiva nella giusta direzione. La stessa direzione sembrava indicare sir Conan Doyle quando affidava alla voce del suo più famoso personaggio, Sherlock Holmes, le seguenti parole: «È un errore capitale teorizzare prima di avere i dati. Senza accorgersene, si comincia a deformare i fatti per adattarli alle teorie, invece di adattare le teorie ai fatti».
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