Io voglio che l’azienda non sia solo una fabbrica, ma un modello, uno stile di vita. Voglio che produca libertà e bellezza perché saranno loro, libertà e bellezza, a dirci come essere felici!”
Ora che anche in Italia è arrivata la figura del CHO (Chief Happiness Officer), nata qualche anno fa negli Stati Uniti, si potrebbe immaginare questa frase come emanazione di quella cultura. La cultura di un Paese che ha inserito nel suo atto fondativo, la dichiarazione d’Indipendenza del 1776, il perseguimento della felicità come un diritto inalienabile di ogni essere umano. Quella frase, invece, è di Adriano Olivetti, imprenditore rivoluzionario, capace di creare un modello di azienda straordinariamente efficace e innovativo dal punto di vista produttivo e, allo stesso tempo, estremamente attento ai valori di solidarietà sociale.
Oggi quelle parole rischiano di sembrare utopistiche, e questa affermazione non è un’opinione. Scorrendo i sondaggi Gallup di questi ultimi anni, i livelli di demotivazione sul lavoro risultano molto alti. In Europa 40 milioni di lavoratori soffrono di “stress da lavoro correlato”, e l’Italia registra un dato tra i più bassi in termini di engagement, cui corrispondono in genere bassa produttività, assenteismo e un aumento degli incidenti sul lavoro.
Ben venga allora il “manager della felicità”, consapevoli che non dobbiamo inventarci nulla di assolutamente nuovo, ma solamente riscoprire in chiave moderna quei valori che sono stati alla base di alcune delle migliori avventure imprenditoriali del nostro Paese. È un aspetto sul quale è molto importante riflettere, perché chi come noi si occupa di emozioni è consapevole del rischio potenziale che si cela dietro certe operazioni (a un primo sguardo solo positive): l’illusione di poter rendere permanente uno stato emotivo che per sua natura è transitorio, esponendoci paradossalmente in questo modo a una possibile infelicità. Tutte le nostre emozioni fanno parte di una complessa rete di pensieri e sentimenti fondamentali per la nostra salute emotiva, l’equilibrio dinamico tra tutte queste componenti è l’elemento più importante per il nostro benessere, ed è proprio di questo che si dovranno far carico i manager della felicità.
Proviamo quindi a mettere a fuoco questo ruolo cui recentemente sono stati dedicati specifici percorsi di formazione. Scorrendo gli aspetti più rilevanti di tale posizione, evidenziati nei programmi di formazione, si nota una particolare attenzione a sviluppare capacità di ascolto e sensibilità relazionale, in sintesi empatia. Il manager della felicità deve diventare un solido punto di riferimento presente nell’organizzazione, pronto a dar voce alle esigenze dei lavoratori, capace di sostenere la crescita dando visibilità e supporto alle qualità di ognuno, attento nel favorire il benessere organizzativo attraverso l’attuazione di progetti finalizzati alla ricerca del miglior work life balance possibile.
Sono molti oggi gli elementi che possono concorrere positivamente al raggiungimento di questo traguardo, al di là dei dati poco confortanti che emergono dai sondaggi sopra esposti. Il mondo del lavoro si trova, infatti, di fronte a una svolta epocale: l’imponente accelerazione nello sviluppo della tecnologia e dei sistemi digitali (la cosiddetta industria 4.0) determina trasformazioni tali da richiedere un profondo cambiamento culturale all’interno delle organizzazioni, e larga parte di questi cambiamenti riguardano la definizione dei ruoli e le relazioni tra le persone negli spazi di lavoro. Basterebbe riflettere sui dati contenuti negli ultimi report pubblicati dall’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano (che attesta il numero degli smart worker in Italia a 500.000) per rendersi conto delle profonde trasformazioni in atto: la necessità di una ridefinizione del tradizionale rapporto capo-collaboratore, che investe il tema della fiducia, della libertà individuale e le idee di motivazione e responsabilità che ne conseguono.
Essere capaci di ridefinire lo stile di leadership, utilizzare in modo strategico la comunicazione, che significa anche saper valorizzare i momenti di relazione vera (vis-à-vis), all’interno di team di lavoro che operano prevalentemente nella dimensione virtuale, si stanno affermando come competenze essenziali per interpretare al meglio questi processi di trasformazione. Capacità facilmente riconducibili alla sfera dell’intelligenza emotiva, osservazione che rimanda a quanto affermato da Daniel Goleman in più occasioni, e cioè che la chiave del successo nel lavoro è determinato prevalentemente dall’intelligenza emotiva.
Non meraviglia allora vedere nelle business school di alcune delle più importanti università (Harvard, Berkeley, London BS) corsi Mba e master in Happiness Management e Positive Organization. Oppure all’Università di Palermo un corso in Economia della Felicità. La sfida è lanciata e anche i manager della felicità giocheranno la loro parte.
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