Rubrica “PSICOLOGIA DELLE EMOZIONI” di Diego Ingrassia – “INTELLIGENZA ARTIFICIALE VS INTELLIGENZA UMANA”
per PSICOLOGIA CONTEMPORANEA – Nuove tecnologie – n. 270, Novembre-Dicembre 2018
È opinione diffusa che nei prossimi dieci-quindici anni assisteremo a profondi mutamenti nel mondo del lavoro.
Larga parte di questi cambiamenti sarà provocata da macchine sempre più intelligenti, capaci di sostituire le persone in svariate professioni.
Forse è ancora presto per stabilire con precisione cosa accadrà, e in effetti molti di coloro che studiano questi fenomeni non sono d’accordo sulle cifre; in ogni caso, l’impatto sociale di tale trasformazione sarà sicuramente molto rilevante.
La questione è seria, anche perché a rilanciare il pericolo di uno sviluppo incontrollato dell’Intelligenza Artificiale (IA), ponendolo come una reale minaccia per lo sviluppo futuro della nostra civiltà, non ci hanno pensato riviste patinate o trasmissioni in cerca di servizi sensazionalistici, ma personaggi del calibro di Bill Gates, Elon Musk e il fisico Stephen Hawking, in un loro appello contro i pericoli di uno sviluppo incontrollato dell’IA.
Secondo uno studio di due accademici di Oxford, Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne, nei prossimi due decenni il 47% dei lavori negli Stati Uniti potrebbe essere spazzato via da robot e macchine intelligenti. Il tema, tuttavia, è ancora alquanto controverso: una recente indagine dell’OCSE, curata da Melanie Arntz, Terry Gregory e Ulrich Zierahn, valuta che appena il 9% dei posti di lavoro, nei Paesi più industrializzati, sarebbe a rischio. Quel che è certo è che siamo di fronte a un cambiamento epocale; prova ne è che, contrariamente a quanto pensano molte persone, l’impatto delle macchine intelligenti non concerne soltanto il settore della produzione, ma si sta espandendo anche al mondo dei servizi, dove il numero di robot e di software intelligenti che si interfacciano con gli utenti è già il doppio del numero dei robot del settore industriale.
Una rivoluzione che sta coinvolgendo comparti del mondo del lavoro inimmaginabili fino a poco tempo fa, legati ad attività di relazione: avvocati, giornalisti, militari, infermieri, medici, baby-sitter, camerieri, operatori di call center. Insomma, nessuna professione sembra più essere del tutto al riparo. La paura che le macchine prendano il sopravvento sul lavoro dell’uomo è una storia antica che ci riporta con la memoria all’origine della rivoluzione industriale e ai luddisti che distruggevano i telai meccanici. Ma la paura odierna non è più verso la macchina come possibile sostituto della forza lavoro: oggi la macchina sfida l’intelligenza dell’uomo, il suo aspetto più nobile. È per questa ragione che dobbiamo essere capaci di definire e descrivere con precisione cosa distingue l’intelligenza umana e in quali ambiti essa non è sostituibile.
Siamo consapevoli che quando l’intelligenza è “potere di calcolo” la macchina è nettamente superiore all’essere umano, ma sappiamo anche che solo in pochi casi, peraltro controversi, un computer è riuscito a superare il test di Turing (ingannare una giuria di esperti facendole credere di dialogare a distanza con un essere umano). Se guardiamo al cervello umano con i suoi 100 miliardi di neuroni e trilioni di sinapsi, ci rendiamo conto che nulla del genere è mai stato nemmeno lontanamente costruito: contestualizzare in modo flessibile gli elementi di senso del reale; garantire equilibrio emotivo e ragionevolezza nel processo decisionale; comprendere responsabilmente le conseguenze di una determinata scelta; essere capaci di fornire risposte anche di fronte a situazioni ambigue; tollerare l’incertezza; agire comunque, se necessario, anche in assenza di una procedura o di un programma – queste sono tutte caratteristiche peculiari dell’intelligenza umana.
Nel futuro almeno prossimo non è quindi in atto alcuna sfida a eliminazione con le macchine; si tratta invece di imparare a gestire sempre meglio, come sta già accadendo in alcune professioni, sistemi complessi, evolute interfacce macchina-uomo.
A titolo di esempio riporto il caso di una grande multinazionale, Unilever, che a partire dal 2016 ha adottato un processo di selezione del personale che utilizza l’IA e la gamification. Il primo step riguarda l’apertura di posizioni lavorative su LinkedIn o Facebook da parte dell’azienda.
Il candidato si iscrive senza bisogno di inviare il classico curriculum, un algoritmo compie una prima valutazione delle competenze in base al profilo LinkedIn. Il passo successivo, per chi viene ritenuto idoneo, consiste in una serie di giochi che misurano concentrazione, memoria a breve termine, cultura generale, problem solving. Il tutto viene eseguito anche comodamente da casa, dal proprio smartphone.
Le persone che superano questa fase devono inoltrare un loro videomessaggio di presentazione che un sofisticato software elabora in base alla voce, alle espressioni facciali, allo stile verbale e ai contenuti. Solo chi supera quest’ultimo passaggio viene convocato in azienda per un classico colloquio di selezione condotto da psicologi esperti, che avranno modo di analizzare e valutare l’insieme dei dati provenienti dalla componente esclusivamente digitale del processo di selezione, integrandola con proprie valutazioni durante il colloquio con il candidato.
È abbastanza semplice constatare, quindi, che è impossibile fermare i grandi cambiamenti in atto, ed è per questa ragione che il modo migliore per contrastare il timore, spesso immotivato, del futuro è la costante ricerca volta a comprendere sempre meglio gli elementi distintivi e il vero valore dell’intelligenza umana. Una gran parte di questa intelligenza dipende dalla nostra Intelligenza Emotiva, ma gli studi dedicati a comprendere l’importanza di essa hanno ancora una storia breve, così il mito della macchina che pare esaltare e rilanciare quella che per molto tempo si è creduta come l’unica intelligenza, da un lato affascina e dall’altro spaventa.
Si tratta di riflessioni che dovrebbero aiutarci a comprendere quanto sia importante valorizzare questo aspetto peculiare della nostra intelligenza a livello educativo in genere e nei programmi scolastici, a partire innanzitutto dalla scuola primaria, per continuare ad alimentare, attraverso la formazione, quel patrimonio di flessibilità cognitiva che ha caratterizzato la nostra straordinaria capacità di adattamento nel corso della storia.
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