Nella nostra società le emozioni sono sempre state scoraggiate e per molto tempo anche nel mondo del lavoro non hanno avuto diritto di cittadinanza. Sulla scia di un pensiero che nasceva a partire dai banchi della scuola, una mente razionale, lucida e distaccata era considerata il requisito migliore per una buona prestazione lavorativa. Si è sempre lasciato poco spazio alle emozioni, perché in contrasto con l’idea di efficienza. Essere definiti “emotivi” equivaleva a essere considerati deboli, non c’era spazio per la tristezza in questo scenario, pena essere immediatamente bollati come depressi. L’idea di poter tenere separati ragione ed emozioni è un pensiero che ha vissuto molto a lungo all’interno della nostra cultura, ma questo non è possibile oltre che sbagliato.
Il merito degli studi sull’intelligenza emotiva, a partire dai lavori di Salovey e Mayer (1995), approdati poi al grande pubblico attraverso la vasta opera divulgativa di Daniel Goleman, è aver fatto comprendere il ruolo fondamentale che le emozioni svolgono in situazioni per molto tempo immaginate come esclusivo dominio del pensiero logico razionale, come i problemi di natura decisionale e la valutazione del rischio. Due premi Nobel su questi temi (Daniel Kahneman, 2002 e Richard Thaler, 2017) sono la migliore testimonianza del valore di queste ricerche.
Questo impulso, ha dato vita a un costrutto che sintetizza in modo efficace un insieme di qualità:
qualità facilmente riconducibili a comportamenti efficaci nella vita di relazione e nella gestione di problemi complessi.
Oggi per fortuna lo scenario è cambiato, e le aziende sempre più spesso ci chiedono di aiutare i loro manager a migliorare queste competenze. Sono molti ormai gli studi che confermano come alcuni pattern delle competenze emotive siano predittivi di una efficace prestazione lavorativa. Il manager emotivamente intelligente è capace di gestire le proprie emozioni, è attento a quanto accade nella dinamica di relazione, dà valore alla componente non verbale della comunicazione, riesce a valutare i comportamenti per gestire in modo costruttivo i suoi collaboratori.
La consapevolezza dell’importanza strategica di queste competenze non può tuttavia limitarsi a casi isolati. La competenza emotiva deve diventare un sapere e una consapevolezza diffusa, capace di permeare tutta l’organizzazione. È necessario allora promuovere un cambiamento della cultura organizzativa, se vogliamo immaginare gruppi di lavoro emotivamente intelligenti, e per fare questo dobbiamo essere capaci di generare modelli di confronto e di comunicazione più aperti e flessibili, è necessario rinunciare a facili scorciatoie ed essere disposti ad accettare maggiore complessità: alimentare l’ascolto, la fiducia reciproca e un clima di cooperazione. Nel presidio di questi processi diventa determinante il ruolo degli HR manager, che hanno anche la responsabilità di fungere da “sponsor” nella creazione di una nuova cultura manageriale. Si tratta di una consapevolezza importante, che diviene cruciale quando lo scenario è segnato da profondi mutamenti, clima di incertezza, maggiore complessità.
Attorno a noi c’è un mondo che cambia a una velocità impressionante: l’innovazione tecnologica, gli effetti della globalizzazione, una società sempre più complessa e multietnica, l’enorme quantità di informazioni da gestire, comunicazioni frenetiche sempre più disattente alla componente emotivo-relazionale. Situazioni che generano comprensibilmente paura e senso di inadeguatezza in molte persone, che temono di non avere risorse sufficienti per adattarsi a cambiamenti di questa portata. Quando la realtà da affrontare assume queste connotazioni (e oggi accade sempre più spesso) non è più possibile affidarsi al “buon senso” o alla estemporanea sensibilità del volonteroso di turno. Spesso i processi di change management falliscono proprio perché sordi e ciechi all’ascolto e alla gestione delle componenti emotive della popolazione coinvolta. Le dinamiche emotive che scorrono profonde sono talvolta così intense da sabotare le trasformazioni più strategiche.
Negli ambienti di lavoro le emozioni devono essere riconosciute e ascoltate. Oggi abbiamo le conoscenze, le competenze e il sostegno della ricerca scientifica per poterlo fare: trasformare ciò che per troppo tempo è stato visto come una criticità da cui difendersi in una preziosa risorsa per affrontare le sfide del futuro.
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