Rubrica “PSICOLOGIA DELLE EMOZIONI” di Diego Ingrassia – “PRIMA IMPRESSIONE: IL BIG BANG DELL’UNIVERSO-RELAZIONE”
per PSICOLOGIA CONTEMPORANEA – L’Inizio –n. 265, Gennaio-Febbraio 2018 – GIUNTI EDITORE
La parola “inizio” origina dal termine latino “initium”: da “andare in, entrare”.
Ancora oggi è del tutto normale l’espressione “entrare in relazione”: l’inizio di una nuova relazione coincide, quindi, con l’ingresso in una “nuova dimensione”, una fase di inevitabile perturbazione e cambiamento, caratteristica di ogni preliminare conoscitivo che accompagna l’instaurarsi di una nuova relazione.
Si tratta di un evento molto compresso in ordine temporale (poche frazioni di secondo) e poco cosciente, normalmente definito “prima impressione”, ma nello stesso tempo ci troviamo di fronte a uno straordinario laboratorio riguardo al mondo delle relazioni, che insieme cercheremo di indagare e comprendere.
Sappiamo che questo processo di rapida valutazione, “a pelle”, può essere cruciale e innescare simpatie, antipatie, aperture e disponibilità, oppure chiusure e pregiudizi.
Ma prima di addentrarci nell’insieme di sensazioni, emozioni e conseguenti ipotesi che ognuno di noi fa dell’altro e sulle ricadute sociali di tutto ciò, è importante soffermarci sulla dimensione biologica che sta alla base del fenomeno.
Questo processo automatico di valutazione è un’importante eredità della nostra evoluzione.
L’animale che vive in foresta ha pochi decimi di secondo a disposizione per capire se chi incontra è un “amico” o un “nemico”, e in funzione di questa rapidissima valutazione decidere come organizzare il proprio comportamento – fuga, attacco o sostanziale indifferenza –, e da ciò dipende la sua sopravvivenza.
È evidente che per quanto riguarda invece noi esseri umani, a parte particolari e rare situazioni di grave minaccia e pericolo dov’è in gioco la nostra sopravvivenza, tale meccanismo può sembrare del tutto inutile o comunque sovradimensionato, eppure questo “pacchetto software” messo a salvaguardia dei nostri confini è ancora perfettamente attivo e assolve anche altre importanti funzioni.
Il processo automatico adattivo è in grado di farci risparmiare energie mentali. Infatti, se dovessimo immagazzinare le decine di migliaia di informazioni sensoriali percepite, il nostro cervello andrebbe presto in black-out.
Per questo, in maniera automatica, il nostro sistema nervoso centrale “sceglie per noi” solo le cose che ritiene essenziali basandosi sull’esperienza pregressa.
Chiaramente, questo meccanismo di “filtro”, se da un lato ci consente di velocizzare i processi e risparmiare energie, dall’altro impone un limite di tipo qualitativo al processo di valutazione in atto. Ognuno di noi, a meno di non avere solide motivazioni che lo inducano a uscire dalla zona di comfort, ricerca sicurezza nei rapporti interpersonali o comunque la soglia più bassa di disagio, applicando scorciatoie mentali per comprendere e classificare cose o persone, ed è evidente che tali scorciatoie siano inevitabilmente esposte allo sviluppo di stereotipi e pregiudizi.
Ma vediamo cosa accade e come possiamo intervenire se decidiamo di provare ad aggirare questi meccanismi.
Il primo rischio che corriamo è che dalle prime impressioni saltiamo alle conclusioni senza considerare ipotesi alternative.
In tal senso non ci aiutano nemmeno molte delle teorie in circolazione che si basano su un approccio prettamente induttivo.
Lo stesso filosofo David Hume, nel suo Trattato sulla natura umana, sosteneva che la mera osservazione di un corvo nero non può confermare la teoria che tutti i corvi siano neri.
Frasi come “Ho visto che era arrabbiato”, “Si è innervosito, eh, quando gli hai fatto quella domanda!”, “È una persona molto timida”, nella loro semplicità rappresentano molto bene tale concetto. Queste etichette per categorizzare l’altro in base alle prime impressioni avute, rischiano di condizionare pesantemente la valutazione anche quando il nostro ruolo professionale richiederebbe un processo di analisi più oggettivo e articolato.
Perciò è bene considerare che, a partire dalle situazioni private che coinvolgono i rapporti più intimi, per arrivare al ruolo del professionista chiamato a gestire processi di tipo valutativo, nessuno è mai esente da bias: scorciatoie per categorizzare velocemente le informazioni e risparmiare energie mentali.
Lavorare in team può eliminare questi errori? Non sempre. Anche perché le opinioni degli altri possono condizionare i nostri giudizi.
Quando ci riferiamo a “pregiudizio contestuale” e ad “aspettativa dell’osservatore” definiamo un insieme di fenomeni correlati alla suggestionabilità degli osservatori rispetto a pregiudizi personali o a informazioni extra, ricevute da terzi, che ne influenzano la valutazione obiettiva.
Un semplice esempio di questo fenomeno è il bias di autoconferma, la tendenza a cercare (volontariamente o in modo inconsapevole) soltanto prove che confermino la nostra convinzione di partenza, ignorando le prove oggettive che potrebbero disconfermarla (tendenza a giudicare le informazioni a supporto delle proprie convinzioni, come più importanti rispetto a quelle che vanno contro ciò che si vuole dimostrare).
In uno studio effettuato da Hill et al. (2008) venne dimostrato quanto questo impattasse su giurati chiamati a prendere una decisione di colpevolezza o innocenza, quando in loro veniva insinuato il dubbio che l’indagato fosse un bugiardo recidivo; oppure venivano tranquillizzati sulla sincerità e precisione del teste.
Eliminare i bias è quindi estremamente complesso. Ciò nondimeno, possiamo costruire maggiore consapevolezza per gestire i nostri pensieri e le nostre emozioni.
La differenza tra chi si avvale di una metodologia d’indagine rigorosa e chi si affida all’istinto è infatti riassunta dalla consapevolezza o meno dei propri ricorrenti errori di giudizio: l’esperto sa dove può essere tratto in inganno, si conosce, e si affida a strumenti che evitino di farlo saltare rapidamente alle conclusioni.
Colleziona dati, verifica diverse ipotesi per ogni dato verbale o non verbale che raccoglie e solo allora esprime una sua valutazione finale.
Una frase assai nota di Oscar Wilde, «Non c’è mai una seconda occasione per fare una buona prima impressione», ci riporta a quel momento iniziale, di cui abbiamo ampiamente parlato, lasciandoci apparentemente senza speranze.
In realtà, abbiamo visto che con un metodo adeguato è possibile portare la nostra consapevolezza là dove la strategia dell’evoluzione aveva preferito affidarsi alla rapidità e alla sicurezza di un meccanismo automatico.
Sviluppare competenze emotive significa essere consapevoli di ciò che produce le nostre reazioni comportamentali e sapervi intervenire per indirizzarle in modo costruttivo verso il nostro interlocutore.
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