Edward T. Hall1 coniò il termine prossemica, disciplina che studia lo spazio e le distanze intercorse tra gli interlocutori durante una comunicazione. Hall ha osservato che la distanza tra le persone (in termini psicologici: affinità, complicità, grado di confidenza, feeling interpersonale) è correlata con la distanza fisica. Hall ha definito e misurato quattro “zone” interpersonali:
Edward Hall sottolinea però che queste distanze sono ideali, influenzate dalla cultura e non universali: la vicinanza ottimale nella quale una persona si sente a proprio agio con le altre persone è spesso soggettiva, varia in base al diverso grado di confidenza, ed è fortemente influenzata da fattori legati al temperamento e alla cultura d’appartenenza della persona. Ad esempio: le persone di etnia e cultura araba preferiscono stare molto vicini tra loro quando conversano; i nord-americani, gli europei e gli asiatici, durante un’interazione comunicativa, generalmente mantengono invece una distanza maggiore; in India, norma sociale impone che persone di caste diverse debbano mantenere distanze specifiche inviolabili. Secondo Hall anche il genere incide sulla prossemica: i maschi si trovano più a loro agio a lato di una persona, mentre le femmine di fronte. Anche a livello di aptica intra-genere esistono sostanziali differenze: le femmine tra loro sono generalmente più predisposte alla vicinanza e al contatto fisico, mentre i maschi sono spesso refrattari alle manifestazioni d’affetto che prevedano contatti fisici non richiesti.
Secondo l’autore, la violazione di queste “zone” da parte di uno degli interlocutori, comporta una serie di reazioni comportamentali ed emozionali nell’altro: la persona che si vede “invasa”, può provare un immediato disagio (la reazione è ancestrale: è dovuta all’attivazione del Sistema Nervoso Simpatico, che innesca meccanismi di “attacco-fuga” spesso inconsapevoli); la persona può cercare di celare il fastidio che può provare facendo come se nulla fosse (ma a livello muscolare si può osservare un irrigidimento posturale e nel volto), oppure può reagire: “attaccare” la persona e richiedere con fermezza il rispetto delle distanze, oppure “fuggire”, spostandosi indietro di qualche passo, con discrezione (per non offendere l’altro).
A livello trans-culturale, l’uso di distanze diverse nell’interazione è spesso fonte di incomprensione tra le persone di etnia diversa: chi è abituato alla prossimità, può sentirsi offeso dall’altro che arretra (<Ma… mi sta “rifiutando”?!?>>), e per converso, chi è abituato a distanze più grandi, può non gradire affatto l’eccessiva vicinanza imposta dall’interlocutore (<<Rispetta i miei spazi! Chi ti ha dato il permesso di prenderti tutta questa confidenza con me?!?>>).
Studi etologici e psicologici hanno dimostrato gli effetti devastanti del sovraffollamento, nell’uomo e negli animali. Alcune ricerche che studiarono il comportamento dei primati antropomorfi sottoposti a condizioni estreme (nelle quali gli esemplari erano stipati e ammassati senza criterio all’interno di gabbie piccolissime) misero in luce i tremendi effetti del sovraffollamento sul benessere fisico e psicologico: alcuni esemplari mostravano infatti stereotipati comportamenti di autolesionismo altamente disfunzionali; alcuni soggetti, quelli più passivi rispetto alla situazione, avevano sviluppato nel tempo atteggiamenti correlabili all’apatia e alla disforia, dovuti probabilmente al senso di impotenza che percepivano rispetto alla situazione coercitiva: nei casi più estremi, perdevano ogni interesse a vivere e si lasciavano letteralmente morire di fame. Negli esseri umani si sono osservati atteggiamenti analoghi, specie nei contesti di prigionia e detenzione forzata (si pensi ai terribili esempi che possiamo annoverare, semplicemente guardando la Storia degli ultimi cent’anni).
In condizioni sicuramente meno estreme a quelle citate, le persone reagiscono comunque con aggressività o ansia quando costrette per lungo tempo in un luogo sovraffollato, dove l’invasione del proprio spazio personale e psicologico è inevitabile: si pensi allo stare in fila per un tempo interminabile, al fine di ottenere un bene o un servizio; l’uscita da un concerto, mal gestita sul piano organizzativo; oppure lo stare in mezzo a una folla, senza aver la possibilità di allontanarsi.
Quando ci capita inavvertitamente di passare davanti a una persona, spesso chiediamo scusa: è sicuramente norma di buona educazione, ma è finalizzata all’evitare che la nostra invasione spaziale possa causare disagio o fastidio nell’altro.
Ma se non abbiamo nessuna informazione a priori su una persona, non conosciamo la sua etnia né che tipo di distanza gradisce nel caso dovessimo interagire con lui, come ci dobbiamo comportare? Se notiamo un’espressione facciale di disprezzo, disgusto o rabbia, chi ci dice che questa mimica non sia dovuta non tanto a cosa diciamo alla persona (o a come gliela diciamo), bensì al contesto in cui avviene la conversazione stessa (dove, magari inconsapevolmente, ci avviciniamo o allontaniamo dall’interlocutore)?
La nostra analisi deve considerare il macro e il micro contesto in cui la conversazione avviene (cultura di riferimento ed educazione familiare specifica; contesto attuale), e se non abbiamo abbastanza informazioni, dobbiamo focalizzare la nostra attenzione sui segnali non verbali universali, che sono sicuramente più validi e affidabili.
Diego Ingrassia
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1 Hall, E.T.
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